La vigilia del vertice NATO a Vilnius che, i prossimi 11 e 12 luglio, dovrebbe sancire l’ulteriore allentamento dei cordoni della borsa a vantaggio dei bisogni – in soldi e in armi – della junta nazi-golpista di Kiev, non sembra particolarmente benevola nei confronti dei circoli banderisti ucraini.
A parte la decisione yankee sull’invio a Kiev di bombe a grappolo, di cui i nazisti – è bene ricordarlo – non hanno mai cessato di far uso, sin dal 2014 e che, a detta del consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, sono utili e buone, a differenza di quelle russe, dannose e pericolose.
A parte questo, i recenti viaggi di Vladimir Zelenskij in giro per l’Europa non hanno dimostrato una particolare propensione degli “alleati” ad accogliere i desiderata ucraini.
A vari livelli, non si fa mistero della stanchezza per il proseguimento del conflitto e per la sua paventata escalation nucleare; e non lo si nasconde nemmeno ai diretti interessati, tanto più che le riserve – di nuovo: in soldi e in armi – in dotazione agli “alleati” della “coalizione per la democrazia” cominciano davvero a scarseggiare.
Inoltre, che fossero vere o di facciata, le speranze occidentali nella fantomatica “controffensiva”, prima di primavera e poi d’estate, si sono sgonfiate: pare, definitivamente.
Non si aspetta che il momento giusto per imporre a Kiev di accettare qualche taglio territoriale (non soltanto a est, tra l’altro) promettendo un contentino sotto forma di “osservatore privilegiato” in UE e NATO.
E la stanchezza non riguarda solo l’Europa. Leader di 33 paesi dell’America Latina e del Bacino caribico hanno chiesto alla UE di annullare l’invito rivolto a Zelenskij per partecipare al summit UE-America Latina, in programma il 17-18 luglio a Bruxelles.
I 33 hanno anche cancellato, dalla bozza di dichiarazione finale messa a punto dalla UE, ogni accenno di sostegno all’Ucraina.
Più nell’immediato, a parte qualche vaga promessa strappata da Vladimir Zelenskij a Praga e a Istanbul, il grado di stanchezza degli “alleati”, lo ha dimostrato l’accoglienza riservata al golpista-capo all’aeroporto di Sofia, pressoché deserto.
Ad accoglierlo (arrivava dalla Moldavia, su un aereo bulgaro) solo la Ministra degli esteri e vice premier, Marija Gabriel. Si sospetta anche che la sceneggiata con il prete ortodosso che, lungo il tragitto dall’aeroporto, gli ha lanciato l’anatema, sia stata dapprima artificialmente tenuta nascosta, mentre in realtà veniva ripresa da varie telecamere, proprio per fargli intendere l’aria che tira.
Oltretutto, pare che nessuno si sia nemmeno preoccupato di organizzare uno straccio di meeting di supporto, con i profughi ucraini, pure presenti in quantità a Sofia.
Non è andato meglio l’incontro col presidente Rumen Radev. Sofia, invece della parola “vittoria”, desidera «udire di più la parola “pace”» e vorrebbe che Kiev e l’Occidente utilizzassero «ogni mezzo diplomatico, per non inasprire il conflitto», ha detto Radev. E, in generale, è tempo di pensare non solo all’Ucraina, ma all’Europa tutta e a come la guerra agisca su di essa.
In concreto, la Bulgaria non concede né armi né munizioni a Kiev; anche se va comunque ricordato che il premier bulgaro Nikolaj Denkov ha sottoscritto la dichiarazione di sostegno all’adesione dell’Ucraina alla NATO.
Il canale telegram ucraino “Legitimnyj” così commenta: «L’amore mondiale è transitato in fretta; ora, Ze può aspettarsi solo una doccia fredda. Anche gli americani, con delicatezza, stanno indicando a Ze il suo posto. Ti sei seduto al tavolo per giocare con truffatori mondiali, sappi che alla fine ti “spoglieranno”, non senza prima averti convinto di essere un “duro”, per disfarti quanto più possibile».
Moderatamente più proficue per Zelenskij, come detto, le visite nella Repubblica Ceca e in Turchia; ma di adesione alla NATO se ne riparlerà, forse, più avanti: molto più avanti.
A più breve termine, l’attesa è per – forse in autunno – un congelamento del conflitto, una pausa che, a detta di Sergej Latyšev, che ne scrive su Tsar’grad, è necessaria sia all’esercito russo, «indebolito da avidi pseudoriformatori», sia ai paesi occidentali, «i cui arsenali sono vuoti e i cui popoli stanno per ribellarsi».
Ma si tratta di prospettive più lunghe, che difficilmente vedranno ancora in sella Zelenskij e la sua banda che, d’altronde, da tempo, in giro per il mondo stanno accumulando i “risparmi” per quando quell’ultimo elicottero yankee li porterà altrove…
E, come a Saigon, o più di recente a Kabul, i posti a bordo non basteranno per tutti; anzi, saranno proprio pochi.
E allora, come pronostica il deputato alla Duma, Mikhail Šeremet, si assisterà alla commedia per cui solo i più irriducibili majdanisti e banderisti (a parte quelli che da tempo si sono ricavati un proprio “nido” nel mondo) tenteranno qualche manovra suicida.
Tutti gli altri, saranno ben contenti di “mostrare fedeltà” a Mosca e giureranno anzi di esser sempre stati fedeli, pur sotto mentite spoglie.
Il politologo Igor’ Šatrov assicura che la fuga sia già in atto: ovviamente, si tratta degli ucraini ricchi, che da tempo hanno messo al sicuro le proprie fortune in Europa o negli Stati Uniti.
Per Vladimir Zelenskij, se non riuscirà a prender posto sul famoso elicottero, Šatrov pronostica un “futuro” come quello attuale di Mikhail Saakašvili, l’ex presidente georgiano dell’attacco all’Ossetija del Sud nel 2008, ex governatore della regione di Odessa (e boss degli affari portuali), da un paio d’anni dietro le sbarre in Georgia, dove era rientrato clandestinamente e da dove era fuggito avendo sul capo una condanna per sottrazione di denaro pubblico e sospetta complicità nella morte di un suo ex ministro.
Il politologo crimeano Ivan Mezjukho nota che già ora, col pretesto di mettere in sicurezza il patrimonio culturale, vengono portate via dall’Ucraina preziosissime antiche icone e, in caso di fuga, i primi a prendere il volo saranno personaggi quali Porošenko, Ljaško, la banda di Zelenskij, i majdanisti non per convinzione ma per opportunità.
Rimarranno, probabilmente, coloro che per molti anni avevano «finto di essere politici filo-russi, per poi mostrarsi nella loro essenza; ma per quanto riguarda l’aver fiducia in loro… nessuna fiducia. Ognuno dovrà essere verificato dagli organi di sicurezza».
Su Svobodnaja Pressa, il politologo Andrej Miljuk si dice perplesso per il fatto che uno degli obiettivi dichiarati dell’intervento in Ucraina sia stata la denazificazione, mentre «ci sono ampie prove che i nazisti di “Azov” fatti prigionieri siano tornati in Ucraina durante gli scambi e molti di essi continuino a combattere».
E continua notando che, a fronte delle «rabbiose dichiarazioni anti-occidentali di Medvedev», vari altri esponenti di primo piano abbiano «ripetutamente sottolineato di essere pronti a normalizzare i rapporti con l’Occidente. Inoltre, uno degli obiettivi dell’intervento è la formazione di un’Ucraina quale cuscinetto neutrale, che consentirebbe alla Russia di coesistere pacificamente con l’Occidente».
Per tutto questo, afferma Miljuk, non assisteremo a una nuova Kabul: i complici ucraini degli americani non si aggrapperanno agli aerei in decollo da Kiev. Rimarranno al loro posto: «gli ex nazionalisti ucraini sferzeranno il nazionalismo ucraino. Solo i più convinti partiranno tranquillamente in treno per Varsavia.
E non se ne andranno nemmeno gli “occupanti occidentali”: in Ucraina hanno imprese, proprietà. E la proprietà privata, come sappiamo, è inviolabile per l’élite russa; anche se proprietà privata del nemico».
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