Il Ministero della difesa russo ha annunciato ufficialmente che, a partire dal 20 luglio, ogni vascello in rotta verso porti ucraini sul mar Nero verrà considerato un potenziale trasporto di armi.
La decisione, è detto, è legata alla fine del cosiddetto “Accordo sul grano” e la relativa riduzione del corridoio umanitario marittimo. Mosca aggiunge che i paesi la cui bandiera è issata su dette navi, verranno considerati implicati nel conflitto dalla parte del regime di Kiev.
Alcune zone nei bacini nordoccidentale e sudorientale delle acque internazionali del mar Nero sono state dichiarate temporaneamente pericolose per la navigazione: sono stati diramati i relativi avvisi informativi previsti dalla procedura sulla revoca delle garanzie di sicurezza ai natanti.
Questo, per quanto riguarda l’aspetto strettamente militare della questione sul ritiro russo dalla Black Sea Grain Initiative.
Sul piano “alimentare”, Jeune Afrique lamenta il pericolo di un balzo dei prezzi alimentari nei paesi africani, in larga parte dipendenti da cereali ucraini e russi.
Secondo l’ONU, scrive Maher Hajbi, la decisione di Mosca avrà conseguenze di vasta portata per «centinaia di milioni di persone bisognose», soprattutto in Africa. Infatti, le importazioni africane di grano rappresentano quasi il 90% del commercio con la Russia e circa il 50% con l’Ucraina.
Secondo la FAO, alcuni paesi africani hanno una dipendenza “pericolosa” dalle esportazioni cerealicole russo-ucraine; tra il 2018 e il 2020, l’Africa ha importato circa 3,7 miliardi di dollari di cereali dalla Russia e 1,4 miliardi dall’Ucraina.
In base a dati UNCTAD, tra il 2018 e il 2020, Benin e Somalia sono dipesi totalmente dal grano russo e ucraino, che ha rappresentato il 100% del loro approvvigionamento.
Primo importatore mondiale e primo consumatore africano di cereali, l’Egitto acquista l’81% del fabbisogno da Mosca (61%) e Kiev (20%); altri 15 paesi africani dipendono per oltre il 55% dei propri approvvigionamenti da Ucraina e Russia: in particolare Sudan (75%), RDC (68%), Senegal (65%), Congo 61%.
Altra questione: avere una precisa rappresentazione di quali siano i diretti fornitori, ad esempio, della produzione agricola ucraina, dal momento che, come ribadito da Mosca, vari “intermediari” europei, acquistano grano ucraino a prezzi di dumping, lo trasformano e lo rivendono «come prodotto finito ad alto valore aggiunto.
Gli occidentali guadagnano due volte, sia sulla vendita che sulla lavorazione del grano. Inoltre, USA e UE stanno speculando sui prezzi, creando una carenza artificiale di merci, e stanno spingendo i prodotti agricoli russi fuori dai mercati mondiali attraverso l’imposizione di sanzioni unilaterali illegali».
Ragion per cui il ritiro di Mosca dall’Accordo non significa che la Russia interrompa le proprie forniture di cereali, in particolare a vari paesi africani, come la vulgata agitata anche dai fascisti di governo, secondo cui il ritiro russo dall’accordo mostrerebbe i veri amici e nemici dei Paesi poveri.
Quanto il mercato dipenda in larga parte dagli “intermediari” euro-atlantici, lo dimostrerebbero d’altronde anche le cifre riportate dall’economista algerino Mahfoud Kaoubi, che parla di un rialzo sui mercati internazionali del prezzo del grano del 3% e del mais per il 2%. Kaoubi teme anche il pericolo che l’India, secondo produttore di grano al mondo, possa in qualsiasi momento giocare la carta del divieto di esportazione, aggravando così il rischio di penuria di scorte nei paesi africani, alcuni dei quali, già dall’inizio del conflitto in Ucraina, cercano di affidarsi alle risorse locali.
In Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, per esempio, si ricorre a manioca e patate dolci per fare il pane; il Togo si è posto l’obiettivo di produrre 10.000 tonnellate di fonio entro il 2028. Un’alternativa ai cereali ucraini e russi sono sorgo e miglio.
Da parte sua, la Russia cerca di non allentare i propri legami africani, anche seguendo la strada del sostegno alle produzioni locali, attraverso i fertilizzanti, che sono uno degli elementi contestati da Mosca, il cui mancato rispetto da parte occidentale ha contribuito a provocare la decisione sul ritiro dall’Accordo.
La questione dei fertilizzanti, nota Estelle Maussion ancora su Jeune Afrique, è a tal punto importante che il programma del secondo vertice Russia-Africa (si terrà a Piter il 27 e 28 luglio) prevede una tavola rotonda specifica sul tema: “La stabilità del mercato dei fertilizzanti come garanzia per lo sradicamento della fame nei Paesi africani”.
A Piter si parlerà anche in particolare del “Partenariato Russia-Africa a favore della sovranità alimentare”, sottolineando che i fertilizzanti sono fondamentali per molte produzioni africane tra cui cotone, cacao e cereali.
La Russia è tra l’altro uno dei maggiori produttori mondiali di fertilizzanti naturali e, stando alla presentazione della suddetta tavola rotonda, Mosca, dopo aver distribuito a titolo gratuito fertilizzanti a vari paesi africani, intende ora «trasferire tecnologie agricole avanzate in Africa».
«Partnership strategiche a lungo termine con i fornitori russi, consentiranno ai Paesi di aumentare la produttività agricola, formare personale industriale qualificato, creare nuovi posti di lavoro e fornire generi alimentari di base alla popolazione», è detto nella nota di presentazione del summit, uno dei cui curatori di punta è il consorzio Uralkhim-Uralkalij, che nel 2022 ha condotto una trentina di corsi di formazione, con alcune migliaia di partecipanti africani.
Tra l’altro, oltre Uralkhim-Uralkalij, la Russia vanta altri tre colossi mondiali nel settore dei fertilizzanti: Akron, EvroKhim e FosAgro, la cui crescita esponenziale di esportazione in Africa è fuori discussione, in particolare con centinaia di migliaia di tonnellate di NPK (Azoto-Fosforo-Potassio), principale fertilizzante fosfatico utilizzato in Africa.
Secondo uno studio condotto da FAO-WFP, realizzato su iniziativa dell’organizzazione dell’Africa occidentale, nel 2021 i flussi complessivi di fertilizzanti russi hanno rappresentato il 50% del fabbisogno del Togo, il 40% del Ghana, il 35% del Burkina Faso e del Senegal, circa il 30% della Costa d’Avorio e oltre il 20% di Mali e Guinea.
Mosca si è mossa anche sul piano dell’immagine: su proposta di Vladimir Putin, Uralkhim-Uralkalij ha messo gratuitamente a disposizione 300.000 tonnellate di prodotti bloccati nei porti europei a causa delle sanzioni UE.
Dopo una prima spedizione a fine 2022 (23.000 tonnellate di NPK) in Burkina Faso, ne sono seguite altre due nel 2023, in Malawi (20.000 tonnellate di NPK) e Kenya (24.000 tonnellate di potassa, urea e NPK), per un totale di 77.000 tonnellate.
Annunciata una quarta spedizione, in Nigeria per lo stesso volume e la stessa tripla composizione del Kenya, ma non ancora effettuata, che avrebbe portato il volume totale a 110.000 tonnellate.
Di fatto, ha precisato il Ministero degli esteri russo, delle 262.000 tonnellate di previste forniture gratuite di fertilizzanti russi ai paesi più poveri, sotto egida ONU, ma bloccate in Lettonia, Estonia, Belgio e Paesi Bassi, nel 2023 sono state effettuate solo due spedizioni: 20.000 tonnellate in Malawi e 34.000 tonnellate in Kenya.
«In linea con le pratiche e le abitudini coloniali, la UE ha bloccato la nostra iniziativa. Ci sono voluti sei mesi per portare la spedizione in Malawi e solo di recente è stato possibile effettuare un’altra consegna in Kenya», ha dichiarato Sergej Lavrov lo scorso maggio, durante una visita in Kenya e Burundi.
Sul versante commerciale, non è da meno anche l’altro grosso produttore russo, FosAgro, che nel 2022 ha venduto circa 11 milioni di tonnellate di fertilizzanti, in crescita del 6,4% su base annuale: le vendite africane verso 21 Paesi, tra cui Sudafrica, Benin, Kenya, Costa d’Avorio, Mali e Camerun, hanno rappresentato il 6% della sua attività complessiva nel 2021.
Nel 2022, FosAgro è stata il primo esportatore russo in Africa con circa 500.000 tonnellate: più 25% in un anno.
Per chiudere, sul piano militare, con la decisione russa del 20 luglio sul blocco dei porti ucraini sul mar Nero, il livello di contrapposizione si fa ancora più elevato: l’Ucraina, osserva il politologo Dmitrij Soin, ha un «disperato bisogno di quei porti; non può sussistere senza la costa del mar Nero: è un duro colpo per la sua economia e le capacità di difesa».
Il blocco dei porti, però, può comportare non solo perdite da parte ucraina, ma anche cambiamenti nelle posizioni dei paesi occidentali: i soggetti «dell’accordo sul grano dovranno prendere una posizione chiara sul conflitto».
Soin ritiene che Mosca debba prepararsi a possibili provocazioni in mare: «ciò potrebbe portare a un nuovo ciclo di isteria globale anti-russa e alla giustificazione del sostegno all’Ucraina. Unica opzione, è quella di creare una situazione per cui quelle navi non abbiano dove attraccare».
Vale a dire, Mosca dovrebbe portare colpi precisi alle infrastrutture costiere: senza banchine, né hangar, né gru, i porti saranno completamente inutili.
E Mosca ha già cominciato.
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