Il Cile che ho vissuto comincia con le musiche degli Inti-Illimani che strimpellavo negli anni ’70 con un gruppetto di amici e amiche di Casignolo (frazione di Monza) guidato dal poliedrico e carissimo Piero Donati. Non eravamo poi così male. I miei strumenti erano la chitarra (come accompagnamento) e il charango. Senza saper leggere la musica naturalmente.
Ricordo che il (probabilmente) secondo anniversario del golpe dell’11 settembre 1973 lo trascorsi proprio a un concerto degli Inti all’Arco della Pace a Milano, vicino all’Arena, in mezzo a migliaia di persone che scandivano “el pueblo, unido, jamás será vencido”.
Divenni parecchio amico allora di Andrea Rivas, un rifugiato cileno (fra i giovani leaders di Unidad Popular) che dirigeva il Cespi-Centro Studi Problemi Internazionali di Milano e che anni dopo sarebbe diventato per un periodo (mio) direttore a Radio Popolare.
Conobbi pure un altro profugo cileno, Rodrigo Diaz, che molto più tardi (nel 2018) da direttore artistico del Festival del Cinema Latino Americano mi invitò a Trieste per la proiezione dell’ultimo mio documentario realizzato per la Radiotelevisione Svizzera Italiana (RSI): “Il RISARCIMENTO mons. Oscar Romero, il suo popolo e papa Francesco”.
Gli Inti-Illimani si trovavano circostanzialmente in Italia quando Salvador Allende fu immolato. E ci rimasero in auto-esilio per tutto il tempo che durò la dittatura; fino alla “abdicazione” in qualche modo forzata del generale Augusto Pinochet nel 1990 (all’indomani delle prime elezioni libere perse dalla destra).
Analogamente successe di dover rimanere in Francia ai Quilapayún; dei quali pure interpretavamo qualche brano.
Chi avrebbe mai detto che parecchi anni dopo gli Inti li avrei conosciuti di persona. Era il 1992 in un teatro di San Salvador. Vennero chiamati dall’ambasciatore cileno nel pulgarcito de las Americas per celebrare la recente firma degli accordi di pace fra governo e guerriglia salvadoregna.
Al termine dell’esibizione mi intrattenni con loro nel backstage e intervistai per la sezione culturale de il manifesto il fondatore del gruppo Jorge Coulón.
Ma l’incredibile doveva ancora accadere. Qualche anno dopo, approdato in Toscana per Sandra, e scelto il mio futuro buen retiro ad Anghiari grazie ai suggerimenti di Saverio Tutino, scoprii che la moglie di quest’ultimo, la scultrice argentina Gloria Argelés, era nientemeno che la madre di Mariana, ex compagna di Coulón dal quale aveva avuto due figli (che vivevano con lei nella vicina Sansepolcro).
Non è un caso che gli Inti fecero un concerto proprio ad Anghiari un due di agosto, annuale commemorazione di Roberto Procelli (vittima della strage di Bologna).
I rapporti si strinsero dunque ancora di più. Fino a che nel novembre del 2002 decidemmo con Sandra di festeggiare i suoi cinquant’anni in Cile. Sarebbe stato il mio primo viaggio nel Cono Sur delle Americhe. Vennero con noi anche Luca e Luigi. E naturalmente Jorge ci riservò un alloggio sulle alture di Valparaiso dal quale si dominava il Pacifico.
Assistemmo a un loro concerto a Viña del Mar, ovviamente più musicalmente artistico e quasi per niente di lotta rispetto a quelli dei decenni precedenti. La sera stessa Jorge ci portò poco lontano a una cena parecchio “su di giri” nella casa in riva al mare dello scrittore Patricio Manns.
Proseguimmo il giorno dopo in auto, noi quattro soli, per un altro lungo tratto sull’infinita striscia del paese che si protende verso nord fra il Pacifico e le Ande. Per visitare, nella ridente Vicuña, la casa della nobel per la letteratura (1945) Gabriela Mistral, a me assai familiare per l’amplia avenida a lei dedicata a San Salvador. Ricordo un tramonto sulla costa dell’oceano con centinaia di pellicani pescatori. Ci spingemmo fino a La Serena, per poi invertire la rotta.
Rientrati a Santiago (in pieno clima primaverile) non mancammo di far visita, con certa emozione, sulla tomba di Salvador Allende. Il taxista che ci conduceva, fra il sorpreso e l’infastidito, ci fece notare come fossimo quasi solo noi europei a rendere omaggio all’ex presidente socialista in quel cimitero…
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Quattro anni dopo il produttore del magazine Falò della tv svizzera mi propose di realizzare un’inchiesta sui furti di rame sempre più frequenti in Ticino e in Italia.
Gli risposi: “se il servizio comprende una viaggio nelle miniere del più grande produttore di rame al mondo (per l’appunto il Cile) ci sto”. Destino volle che (biglietto aereo fatto da tempo) giungessi a Santiago proprio la mattina di quel 12 dicembre 2006 mentre iniziavano i funerali di Pinochet.
Mi trasferii dall’aeroporto direttamente nell’ufficio del direttore del quotidiano oficialista La Nación (un giornalista ex rifugiato in Italia di cui non ricordo il nome) che dalla sua scrivania seguiva in diretta su un grande schermo le esequie dell’ex dittatore; mentre alle finestre, che davano sulla piazza del Palacio de la Moneda, si vedevano (e si sentivano) centinaia di dimostranti della sinistra in festa. In quel momento era presidente il socialista Ricardo Lagos.
Doveva andarmi inesorabilmente così visto che nell’ottobre 1997 mi era già toccato di assistere al entierro dell’opposta figura paradigmatica del tiranno cileno nella storia moderna dell’America Latina.
Mi trovavo infatti a L’Avana accompagnando (allora da stringer) una troupe della Tsi che doveva girare un servizio su Cuba in vista dell’imminente viaggio di papa Wojtyla nell’isola. Quando dalla Bolivia giunsero i resti del Che Guevara; che fu vegliato nella Plaza de la Revolución e successivamente tumulato a Santa Clara; da dove scrissi un pezzo per il manifesto.
E, poiché non c’è il due senza il tre, partecipai pure (anche qui biglietto già in tasca) ai funerali di Fidel Castro a fine novembre del 2016, quando fui invitato nella capitale cubana per presentare la versione originale del documentario El Desagravio su mons. Romero al Festival del Nuevo Cine Latinoamericano.
A Santiago ci mettemmo subito a lavorare, e un paio di giorni dopo ci trasferimmo in aereo nel nord del Cile nel magico deserto di Atacama dove si trova la miniera di rame a cielo aperto di Chuquicamata, la più grande al mondo.
Commentai con chi ci seguiva come il Che nel 1952, nel suo viaggio in motocicletta, fosse passato di lì rimanendo impressionato per le condizioni estreme di sfruttamento dei minatori. Ricevetti una replica un po’ maligna su quei lavoratori che, al contrario, avrebbero invitato il Che a rimontare in sella e andarsene in fretta.
Del resto il nostro anfitrione era (e non poteva che essere) un dirigente della Codelco, la società statale del rame che ci aveva gentilmente aperto le porte per realizzare il nostro reportage.
Una compagnia mineraria che, nonostante il Cile avesse inaugurato le privatizzazioni e le ricette iperneoliberiste dei chicago-boys nel subcontinente, era rimasta in mani pubbliche anche durante il regime pinochetista proprio per finanziare in piena autonomia il suo apparato militare.
Passammo un piacevole fine settimana per le pittoresche stradine sterrate di San Pedro de Atacama, non senza aver prima compiuto un’escursione sulle alture a perdifiato del deserto che dominano i salares (laghi salati andini).
E il lunedì ci recammo alla miniera Gaby, il cui allestimento in quel momento in corso era frutto di una joint venture fra la Codelco (al 51%) e il governo cinese (al 49%), che aveva anticipato l’intera propria quota d’ investimento.
A Santiago visitammo la sede centrale della Codelco e filmammo una divertente lezione di cinese ad alcuni dipendenti. Con mia sorpresa (ma capitava di frequente al presentarsi come tv svizzera) anche l’addetto commerciale dell’ambasciata cinese ci ricevette e ci rilasciò un’intervista sugli interscambi di Pechino col paese andino.
Alla fine, insieme ai filmati sui furti di rame di casa nostra (che scoprii come finisse proprio in Cina imbarcato nel porto di Gioia Tauro) decidemmo di intitolarlo “L’Oro Rosso”.
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Da ex operaio metalmeccanico (diventato giornalista per caso) e forse per essere del segno del capricorno, ho avuto da sempre le radici ben piantate nella (presunta) realtà concreta e materiale.
Dovevo oltrepassare i sessant’anni per scoprire in qualche modo la dimensione dell’irrazionale. Da tempo ad agosto seguo il Festival del Cinema di Locarno; che quel 2016 aveva come ospite d’onore il tanto politicamente affine Ken Loach, autore del magistrale Carla’s Song (sul Nicaragua) e che nell’occasione ho avuto l’onore di conoscere.
Eppure quell’anno rimasi ben più intrigato dalla presenza del polifacético drammaturgo Alejandro Jodorowsky, sul quale mi cadde l’attenzione proprio per la sua origine cilena. Rimasi impressionato in particolare dalla presentazione di uno dei suoi film, La Danza de la Realidad, fantasiosamente autobiografico (con suo figlio che interpreta lui stesso) e ambientato sul Pacifico nella sua Tocopilla, quasi al confine col Perù.
Seguii pure il suo simpatico incontro con i “festivalieri” che si prolungò oltre misura e nel quale, a parte presentare la sua giovane moglie (ostentando da classico macho latinoamericano in là con gli anni, che “gli funzionava ancora”) “unì in matrimonio” seduta stante una giovane coppia che gliene aveva fatto richiesta.
Proiettarono altri due suoi film. Così che per la prima volta nella mia vita m’immersi per poi involarmi alla volta del surrealismo…
Restando sul cinema, mi vengono in mente due altri grandi film cileni, entrambi di Pablo Larraín: “NO” che mi son goduto nel 2012 sul mega-schermo di Piazza Grande (a Locarno); e, in prima assoluta, “NERUDA” al Festival del Nuevo Cine Latinoamericano di L’Avana nel dicembre 2016 (dove presentavo a mia volta il documentario su mons. Romero).
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Ah del Cile, dimenticavo, una costante presenza: il mio più grande amico (coetaneo) Erik Flakoll (pseudonimo di battaglia Daniel Alegría) subcomandante del Ministerio del Interior in Nicaragua durante la Revolución Popular Sandinista (oggi giornalista e video maker, oltre che skipper), è nato “per caso” a Santiago.
Mi raccontava sua madre, la grande poetessa nicaraguense-salvadoregna Claribel Alegría (Premio Poesia Iberoamericana 2017) che al termine di una cena a Città del Messico col marito Bud Flakoll e lo scrittore messicano Juan Rulfo, a un certo punto quest’ultimo fece notare loro che quella sera di luna piena avrebbe potuto essere assai propizia in amore.
Daniel fu concepito proprio quella notte. Anche se poi nacque in Cile dove suo padre, giornalista e diplomatico statunitense, era stato trasferito. Sì, proprio la cara Claribel, negli ultimi anni mia musa ispiratrice, la cui ultima opera poetica è stata Amor sin Fin. Come Poesía sin Fin è stato l’ultimo film di Jodoroswsky.
Daniel mi ha raccontato delle lunghe conversazioni con sua madre (registrate e che per l’imminente centenario della sua nascita dovremmo riordinare) nell’ultimo loro viaggio insieme su una nave da crociera che circumnavigava lo Stretto di Magellano…
Tutto quel sur de Chile che chissà mai se farò in tempo a conoscere un giorno (insieme alla Patagonia argentina), salvo sapere qualcosa dell’isola (un po’ più in su) di Chiloé di cui vidi un documentario sulla Rai da adolescente.
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Non ho mai scritto per mestiere sul Cile, avendo vissuto a lungo in Centro America e occupandomi dunque dei paesi della Cuenca del Caribe. Tranne su sollecitazione di colleghi svizzeri in due occasioni ben precise.
La prima nel 2003 per il XXX° anniversario del colpo di stato. Mi chiamò Cesare Chiericati, colui che mi aveva ingaggiato per la Tsi e per il quale ero a Cuba quando arrivarono le spoglie del Che. Era passato a dirigere (per un breve periodo) il Giornale del Popolo, quotidiano cattolico del Ticino; e mi chiese di scrivere una pagina ad hoc sul Cile.
Mentre sul mio di giornale, il manifesto, non poteva che scrivere naturalmente Rossana Rossanda (che Salvador Allende lo aveva intervistato personalmente a Santiago) e il mio maestrissimo (suo malgrado) Maurizio Matteuzzi (storico capo-esteri).
È stato l’unico mio articolo per quel quotidiano svizzero, peraltro così lontano dalle mie sensibilità politiche. Ma fu l’occasione per togliermi una grande soddisfazione dopo che il 26 febbraio del 1990, all’indomani della sconfitta elettorale del Frente Sandinista in Nicaragua, ebbi l’unico “incidente” professionale nella mia pluritrentennale collaborazione con la RSI.
Nell’editoriale di quel giorno il Giornale del Popolo aveva attaccato (senza fare il mio nome) il corrispondente da Managua della radio per aver presuntamente affermato che nel segreto dell’urna il popolo del Nicaragua si fosse “venduto agli Stati Uniti per un piatto di lenticchie”.
Quando in realtà nel mio commento, a domanda del responsabile esteri della radio, avevo risposto che i nicaraguensi fra la prosecuzione della guerra d’aggressione degli Usa e il gallo pinto (il piatto tipico locale di riso e fagioli, come dire la nostra pastasciutta) ovvero fra la rivoluzione e la sopravvivenza, avevano optato per quest’ultima.
La seconda volta è stato nel mese di dicembre 2021 all’indomani della vittoria della sinistra del 35enne Gabriel Boric sul nostalgico pinochetista José Antonio Kast. La sollecitazione mi è giunta da Aldo Sofia, tra i fondatori del blog ticinese Naufraghi/e (che curiosamente – scoprii più tardi – la sera del polemico episodio sul Giornale del Popolo, da direttore del tg svizzero quale era, aveva tenuto in studio un confronto di opinioni).
Invito che naturalmente raccolsi, pur senza essere uno specialista di quel paese; ma con lo stesso spirito con cui mi è venuto di scrivere questa breve memoria sul “mio” Cile, che proprio il successo di Boric mi ha ispirato. Un’affermazione elettorale comunque storica la sua, soprattutto per la mia generazione (dentro e fuori del subcontinente latinoamericano) che, a quasi mezzo secolo di distanza, avrebbe potuto ribaltare una volta per tutte il sacrificio di Allende, lasciandosi alle spalle per sempre l’epoca di un Pinochet che (a parte l’innocua disavventura in Inghilterra) è morto nel suo letto nella più totale impunità e celebrato dai suoi sostenitori.
Purtroppo l’impresa si sta rivelando oltremodo ciclopica per il povero Boric, persino al bordo del fallimento. Proprio mentre si è nel pieno delle celebrazioni per il 50° del martirio politico di Salvador Allende. La cui nipote, Maria Inés Bussi, che avevo conosciuto nel 1985 a Città del Messico, mi ha fatto il grande regalo di una lunga conversazione (via whatsapp) in cui ha rievocato quell’entusiasmante quanto poi tragica epoca.
Post scriptum. Peccato che conversando in questi giorni qui e là con amici e amiche (anche di certa età) l’11 settembre rievochi solamente l’attacco alla Torri Gemelle del 2001 a New York. Che pure potrebbe essere vissuto in America Latina come una sorta di castigo del destino a posteriori per il ruolo determinante giocato dagli Stati Uniti nella caduta di Allende…
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ANNA
Caro Beretta, io che ho una certa età, ricordo l’11 settembre come il giorno del colpo di stato , e da allora è nata la mia fratellanza con i popoli dell’A
.Latina.Anch’io ero al concerto degli Inti Illimani all’Arco della Pace a scandire “El pueblo unido”. Boric mi ha delusa e forse non sono l’unica.
E Sem
… e poi c’è l’ 11 settembre del popolo cileno torturato, perseguitato, affamato, umiliato, assassinato. …., ma questa e’ un’ altra storia.