Ultim’ora. Il Ministero della Sanità palestinese ha pubblicato i dati aggiornati sulle vittime dei bombardamenti israeliani su Gaza. Secondo i dati aggiornati, dal 7 ottobre sono state uccise almeno 8.796 persone, tra cui 3.648 bambini e 2.290 donne.
Risultano però ancora disperse circa 2.000 persone, tra cui 1.100 bambini. Si ritiene che la stragrande maggioranza di queste persone sia morta e sepolta sotto le macerie. Almeno 22.219 persone sono state ferite.
Quasi 90 palestinesi feriti e quasi 450 persone con doppia cittadinanza e stranieri hanno lasciato Gaza questa mattina per l’Egitto attraverso il valico di Rafah dopo che le autorità egiziane ne hanno annunciato l’apertura per la prima volta al pubblico, nel 26mo giorno di bombardamenti su Gaza: lo riporta un giornalista dell’Afp sul posto.
Palestinesi, persone con doppia cittadinanza e stranieri sono stati autorizzati a entrare nel terminal del valico intorno alle 8:45 ora italiana.
*****
Sono almeno 145 i palestinesi morti nel bombardamento israeliano contro il campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. Lo riferiscono fonti sanitarie. Almeno 90 delle vittime sono state trasportate all’ospedale indonesiano della Striscia, mentre altri 55 sono stati portati al centro Kamal Adwan, entrambi nel nord dell’enclave.
Gli aerei da guerra israeliani, secondo l’agenzia Wafa hanno colpito diversi edifici residenziali che si trovavano al centro dell’affollato campo, provocando la morte e il ferimento di centinaia di persone. Molti si trovano ancora sotto le macerie, dalle quali sono stati recuperati almeno 47 corpi, riferisce il Guardian.
Il Ministero dell’Interno palestinese ha detto che si stima che il campo di Jabalia sia stato bombardato con 6 bombe, ognuna del peso di una tonnellata di esplosivo, e che Israele abbia distrutto un quartiere residenziale al centro del campo.
Attacchi aerei israeliani hanno raggiunto anche il campo profughi di Al-Shati, vicino a Gaza City. Le notizie parlano della distruzione di diversi edifici residenziali mentre molte famiglie erano ancora all’interno. Anche l’edificio residenziale Al-Mohandiseen a Nuseirat è stato colpito dalle bombe israeliane.
Il fronte militare
Dopo il bombardamento nel campo profughi di Jabalia, Hamas ha esortato i paesi arabi e musulmani “a prendere una posizione storica e decisiva per fermare i massacri” commessi da Israele, e quello che descrive come un “genocidio” contro il popolo palestinese. Lo riferisce Al Jazeera online.
L’esercito israeliano sta avanzando verso Gaza City lungo due linee, ma viene ostacolato dai combattenti palestinesi “e viene impegnato in duri scontri”. A riferirlo sono le Brigate Ezzedin al-Qassam. Due soldati israeliani sono morti ieri durante le operazioni di terra a Gaza. Lo ha fatto sapere l’esercito spiegando che i due facevano parte della Brigata Givati.
Nel settore centrale della Striscia, superata la Sallah-a-din Road (principale arteria della Striscia) l’esercito punta verso l’ospedale turco per raggiungere in perpendicolare la strada costiera al-Rashid.
Secondo fonti militari di Tel Aviv i militari israeliani sarebbero penetrati a sud di Gaza City. La seconda linea di attacco è partita dal nord della Striscia. I militari hanno attraversato Beit Lahya e il rione Karameh e sono vicini alla via Nasser, non lontano dall’ospedale Shifa.
A Gaza occorre rammentare che agiscono diversi gruppi armati della Resistenza. Il più grande in termini di numeri, forza e capacità militare è la Brigata Al-Qassam, il braccio militare del movimento politico di Hamas. Seguono le Brigate Al-Quds, il braccio armato della Jihad islamica palestinese (PIJ).
Poi ci sono le Brigate Abu Ali Mustafa, il braccio militare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Ci sono inoltre altri gruppi combattenti, che operano tutti sotto la guida coordinata della Joint Operations Room.
Quattro palestinesi sono stati uccisi nella notte durante gli scontri con le forze israeliane in Cisgiordania. Tre sono stati uccisi a Jenin, mentre un altro è stato ucciso a Tulkarem. Le forze di sicurezza israeliani sotto copertura sono entrati a Jenin ieri sera per arrestare Atta Abu Rumaila, 63 anni, segretario generale di Fatah nella città settentrionale della Cisgiordania.
Il fronte diplomatico
L’Egitto ha aperto il valico di Rafah per la prima volta dall’inizio del conflitto. Lo rendono noto i media egiziani. L’Egitto permetterà a 81 palestinesi feriti gravemente di attraversare il valico per essere curati. Lo hanno riferito fonti locali al quotidiano egiziano “Ahram Online” .
Il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha respinto le accuse degli Stati Uniti secondo cui il suo Paese sarebbe coinvolto nei recenti attacchi contro le basi americane nell’Asia occidentale, affermando che nessun gruppo prende ordini da Teheran e che la Repubblica islamica non ha proprio uomini nella regione.
Il diplomatico iraniano ha fatto questi commenti in un’intervista all’emittente statunitense Cnn. Il ministro degli Esteri iraniano, ha avuto ieri un incontro con il capo dell’ufficio politico di Hamas a Doha a margine della sua visita ufficiale in Qatar. Lo riporta Al Arabya. Il ministro oggi è atteso in visita ufficiale ad Ankara per discutere del conflitto tra Israele e palestinesi.
Per il ministro degli Esteri russo Lavrov “Gli attacchi aerei israeliani sul territorio siriano, che sono diventati più frequenti in seguito agli eventi intorno alla Striscia di Gaza“, “sono inaccettabili“. Lavrov ne ha discusso in una telefonata con il suo omologo siriano Faisal Mekdad.
Lavrov ha messo in guardia dal “pericolo di tentativi da parte di forze esterne di trasformare il Medio Oriente in un’arena per regolare i conti geopolitici“.
*****
A Jabaliya «l’ora più buia». Sei bombe, decine di uccisi
Chiara Cruciati – il manifesto
È stato come un terremoto. Le descrivevano così ieri i residenti del campo profughi di Jabaliya le sei bombe sganciate dall’aviazione israeliana. Il terremoto ha lasciato quel che lasciano i terremoti: macerie.
Una quantità enorme di macerie perché a essere colpito è uno dei luoghi più densamente popolati del nord della Striscia di Gaza, «incastrato» tra Beit Lahiya e Beit Hanoun: le bombe hanno lasciato un cratere che ha inghiottito le case. I palazzi sono grigi, la polvere è grigia e anche le macerie. Il colore lo danno materassi, coperte, vestiti che spuntano dal cemento aggrovigliato.
A centinaia, civili e paramedici, scavano con le mani nella polvere che ancora si alza dal cratere, provano a rimuovere pezzi di cemento e ferro. Un’ora dopo riescono a recuperare 47 corpi senza vita. Con le ore il numero dei palestinesi uccisi aumenterà: a sera si parla di un centinaio. Tra loro molti bambini, molte donne, in 25 giorni di operazione militare israeliana il 70% delle vittime.
«Se ci fosse una parola per descrivere qualcosa più grande di un massacro, sarebbe questo – racconta il corrispondente di Middle East Eye – Non si distinguono più le case, le persone sono seppellite sotto le loro stesse case».
Un uomo urla sopra un cumulo di macerie, «ho perso tre figli, li ho persi tutti». Lo abbracciano, provano a calmarlo, lui continua a urlare. I feriti, centinaia, vengono portati nel vicino Indonesian Hospital, qualcuno con le barelle disponibili, tanti in braccio, altri in bicicletta.
Nell’ospedale è il caos, lo ridanno indietro le immagini di al-Jazeera: un numero indefinibile di feriti, molti soccorsi sul pavimento perché non ci sono più letti, trattati senza anestesia perché gli anestetici semplicemente non ci sono più. I medici sono sfiniti da turni lunghi giorni interi, dall’impossibilità di salvare tutti, da un peso psicologico enorme che per molti di loro è stato reso insopportabile dalla morte dei propri familiari.
«I letti non sono abbastanza, non possiamo garantire cure a tutti – dice ad al-Jazeera Ahmad al-Kahlout, direttore della protezione civile – Senza carburante le operazioni si fermeranno. Il mondo sta firmando il certificato di morte di queste persone».
Quello che ha colpito il campo di Jabaliya è stato uno dei peggiori bombardamenti israeliani dal 7 ottobre. I sedici edifici completamente distrutti erano casa a centinaia di persone: «l’ora più buia», la chiama il medico norvegese Mads Gilbert, «mai visto un massacro del genere».
Nelle stesse ore venivano colpiti anche i campi di al-Shati e al-Nuseirat, altre decine di uccisi. In serata l’esercito israeliano ha confermato il raid su Jabaliya, definendolo diretto a eliminare il comandante del battaglione di Hamas, Ibrahim Biari, che sarebbe morto. Il portavoce militare ha aggiunto che l’uccisione di civili è «la tragedia della guerra, lo diciamo da giorni di muoversi verso sud». Hamas smentisce: nel campo non erano presenti suoi leader.
In 25 giorni i numeri sono impressionanti, oltre 8.600 palestinesi uccisi, di cui circa 2mila mai recuperati tra le macerie. Tra i morti ci sono oltre 3.500 bambini, un migliaio mai ritrovati. Sono 150 bambini al giorno: a Gaza, hanno calcolato domenica diverse organizzazioni per i diritti umani, sono stati uccisi più bambini di quanti ne abbiano uccisi ogni anno tutti i conflitti armati nel mondo dal 2019 a oggi.
L’Unicef ieri ha parlato di Gaza come di «un cimitero per bambini», «un inferno sulla terra». Di fronte al Consiglio di Sicurezza l’Alto commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha sferzato la comunità internazionale, paragonando il massacro di Gaza a quello del Darfour e individuando in una pace giusta l’unica soluzione al conflitto.
Parole a cui sono seguite quelle del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: «Il diritto umanitario internazionale stabilisce regole chiare che non possono essere ignorate. Non è un menu à la carte e non può essere applicato selettivamente».
Ma l’operazione israeliana non si interromperà a breve. Lo ha ribadito lunedì sera il primo ministro Netanyahu e lo ribadiscono il numero di bombardamenti compiuti negli ultimi giorni, trecento solo lunedì, ma soprattutto i movimenti di terra. L’invasione è realtà: a nord, a est e a sud.
Le immagini satellitari pubblicate ieri dal New York Times confermano le notizie che giungono da Gaza: l’esercito israeliano sta tentando di «spezzare» la Striscia in due, di separare il nord e il sud all’altezza di Salah-a-Din Street a Gaza City.
I carri armati spingono lungo due direttrici, da nord su al-Rasheed Street e da est sulla Salah-a-Din. Pesanti scontri con le Brigate al-Qassam, ala militare di Hamas, si sono registrati ancora ieri, non confermati dal governo israeliano che ha imposto il silenzio sulle manovre di terra.
Hamas risponde con dei video, apparentemente girati a Beit Hanoun: i miliziani sparano con armi automatiche e missili anticarro alle forze di terra israeliane.
Martedì mattina il portavoce militare Daniel Hagari ha confermato la spinta verso Gaza City e affermato che gli attacchi via terra hanno preso di mira tunnel e postazioni di lancio di missili. In ogni caso, al momento, i confronti a fuoco sembrano limitarsi alle zone non urbane. Se e quando raggiungeranno le città, il massacro di civili non farà che peggiorare.
È in questo quadro che si inserisce la questione, centrale, dei rifugiati. I piani apparenti dell’operazione via terra e quelli a cui ha dato voce il documento del ministero dell’intelligence israeliano prevedono la spinta della popolazione palestinese del nord di Gaza verso il sud. E poi, verso il Sinai egiziano.
Un progetto di spopolamento che Il Cairo ha da subito avversato ma che sembra rimanere l’obiettivo di Tel Aviv: secondo l’israeliano YnetNews, Israele starebbe facendo pressioni sul governo egiziano attraverso gli alleati occidentali.
Pressioni economiche: la cancellazione di un pezzo consistente del debito estero egiziano (aumentato a dismisura sotto al-Sisi e responsabile di buona parte della crisi economica interna) in cambio dell’accoglienza dei rifugiati. Una conferma giunge dal Financial Times: Netanyahu sta insistendo sugli alleati europei perché facciano da ponte con Il Cairo.
Oggi il valico di Rafah dovrebbe aprirsi a 81 feriti palestinesi. Intanto Hamas annuncia l’intenzione di liberare alcuni ostaggi stranieri.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Matteo
Servirebbe che Russia o Cina offrissero il proprio ombrello nucleare all’Iran per permettere a quest’ultimo di fare finalmente qualcosa di concreto per fermare il genocidio dei palestinesi. L’Iran non entra in guerra perché il regime sionista, delle cui infamie ormai si è perso il conto, non esiterebbe a sganciare un ordigno nucleare su Teheran in caso di difficoltà. L’atteggiamento guardingo dei paesi arabi – al di là della mera retorica – è vomitevole. E intanto Gaza sta scomparendo…