Il massacratore è tornato sul luogo dell’eccidio. Israele ieri sera ha colpito di nuovo il più grande campo profughi di Gaza con altri attacchi aerei, costringendo i funzionari delle Nazioni Unite ad avvertire che prendere di mira aree residenziali densamente popolate “potrebbe equivalere a crimini di guerra“.
Le bombe hanno colpito il campo di Jabaliya per la seconda volta in due giorni, polverizzando gli edifici e uccidendo almeno 195 persone, secondo i dati diffusi dalle autorità locali.
Israele ha affermato invece che i suoi aerei da combattimento hanno effettuato l’attacco, prendendo di mira “un complesso di comando e controllo di Hamas” ed “eliminando” un numero indefinito di militanti. Ma come tutti sanno, le bombe da una tonnellata ha molti poteri, ma non quello di distinguere tra bambini, donne, anziani e combattenti.
I miliziani di Hamas nel nord della Striscia hanno comunque lanciato missili anticarro, fatto esplodere ordigni esplosivi e lanciato granate contro le truppe di invasione.
I soccorritori stanno comunicando che sono morte “intere famiglie”. Israele infatti dichiara di aver colpito più di 11.000 obiettivi a Gaza dal 7 ottobre. Ed è chiarissimo che Hamas non può disporre di così tante postazioni.
Secondo il ministero della Sanità di Gaza, finora sono stati uccisi 8.796 abitanti di Gaza, soprattutto donne e bambini. Interi quartieri di Gaza sono stati rasi al suolo.
Ma dagli Stati Uniti – gli unici al momento che hanno una minima interlocuzione con i massacratori di Tel Aviv – non muovo un solo muscoo per convincere Netanyahu a stabilire quanto meno una “pausa umanitaria”.
Anzi, diverse fonti – tra cuui il New York Times – convergono nel riferire che il Pentagono sta inviando in Israele diversi specialisti. Christopher P. Maier, un assistente segretario alla Difesa, ha candidamente ammesso la cosa: “Stiamo aiutando attivamente gli israeliani a fare una serie di cose“. Perché ad avviso della Casa Bianca il compito principale è quello di assistere nel lavoro per “identificare gli ostaggi, compresi gli ostaggi americani. È davvero nostra responsabilità farlo“.
Per la gioia dei pennivendoli occidentali, comunque, Joe Biden si è detto favorevole a una “pausa” per consentire ai “prigionieri” di lasciare l’enclave. Ma non viene creduto neanche dagli ebrei residenti negli Usa. A un evento di raccolta fondi per le prossime elezioni presidenziali, un membro del pubblico ha gridato: “Come tuo rabbino, ti chiedo di chiedere immediatamente un cessate il fuoco“.
Solo per fare bella figura in questa situazione Biden ha farfugliato “Penso che abbiamo bisogno di una pausa. Una pausa significa dare tempo per far uscire i prigionieri“. Ma se non costretto non avrebbe detto nulla.
E infatti subito dopo ha ridimensionato anche una frase così poco significativa. La Casa Bianca ha poi chiarito che per “prigionieri” il presidente si riferiva agli ostaggi del movimento islamista Hamas. Preferendo illustrare il ruolo “decisivo” del vecchio farfugliante: “Sono stato io a convincere Bibi (il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ndr) a chiedere un cessate il fuoco per far uscire i prigionieri. Sono stato io a parlare con Sissi (il presidente egiziano) per convincerlo ad “aprire la porta”, precisamente al valico di Rafah nel sud della Striscia di Gaza”.
La Casa Bianca finora si è però rifiutata finora di discutere un cessate il fuoco, ritenendo che questo farebbe il gioco di Hamas, ma ha chiesto “pause umanitarie” per consentire la consegna degli aiuti o effettuare evacuazioni. Insomma, il tempo di ricaricare le armi…
Qui di seguito, molto più realistica, la situazione sul campo, nella corrispondenza di Michele Giorgio da Gerusalemme.
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A Jabaliya non si ferma il «crimine di guerra»
Michele Giorgio, Gerusalemme – il manifesto
Wafiq Abu Sido le sente ancora le bombe che esplodono a poche decine di metri da casa sua, a Beit Hanoun, nel nord di Gaza, abbandonata assieme a moglie e figli due settimane fa. «Non c’è più la nostra casa – racconta – (gli israeliani) l’hanno buttata giù con un missile, me l’ha detto un cugino scappato dopo di me. Non abbiamo più nulla».
Oltre a dover assicurarsi ogni giorno che i pochi aiuti umanitari disponibili garantiscano a lui e alla sua famiglia almeno cibo e acqua, Abu Sido, 47 anni, vive in condizioni igienico sanitarie a dir poco precarie assieme ad altre migliaia di sfollati in una scuola dell’Unrwa (Onu) a Rafah.
«Andiamo il meno possibile ai gabinetti, solo a vederli ci si ammala», dice lo sfollato palestinese. «Viviamo nella sporcizia, dormiamo su pavimenti calpestati da migliaia di persone, siamo ammassati in un’aula assieme ad una decine di famiglie. È un miracolo che i miei figli più piccoli non si siano ammalati».
Ma le malattie infettive si stanno diffondendo tra gli sfollati in linea con la previsione fatta giorni fa dall’Oms e da varie ong.
Era inevitabile di fronte a 670mila civili che dal nord si sono spostati a sud spinti dall’invasione di terra israeliana. La diarrea, specie nei bambini, è il risultato scontato della mancanza di acqua pulita e delle pessime condizioni igieniche.
Medici e infermieri provano a combatterla ma gli antibiotici scarseggiano e spesso non possono far altro che dare a chi sta male del paracetamolo. Servono i pannolini, li chiedono le mamme che devono cambiare i figli più piccoli sette-otto volte al giorno. Quelli disponibili non bastano.
Ci vorrebbero rifornimenti straordinari ma gli aiuti umanitari che entrano dal valico di Rafah, largamente insufficienti (appena 272 camion dall’inizio dell’offensiva) raramente li includono.
La Mezzaluna rossa è costretta a privilegiare l’acqua, i generi alimentari di base e soprattutto attrezzature e medicine salvavita per gli ospedali. Mancano anche gli assorbenti, tante donne di Gaza prendono farmaci per bloccare le mestruazioni. Non poche di loro hanno partorito in scuole e rifugi dell’Unrwa in condizioni indescrivibili e rischiando la morte.
Ieri dopo 26 giorni di guerra è stata concordata una breve apertura del valico di Rafah anche per le persone. Ciò ha consentito l’uscita di 81 palestinesi gravemente feriti portati in ospedali egiziani. Hanno potuto lasciare Gaza alcuni operatori umanitari stranieri e cittadini palestinesi con doppia cittadinanza.
Tra loro ci sono il capo missione della ong italiana CISS, Jacopo Intini, con la responsabile di area, Amal Khayal.
Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas al sud di Israele (1400 morti e 240 presi in ostaggio), le bombe sganciate dagli F-16 e dai droni su Gaza, hanno ucciso 8.805 palestinesi, tra cui 3.650 bambini e 2.252 donne. 22mila i feriti. L’ha comunicato il ministero della sanità.
Disperse circa 2.000 persone, tra cui 1.100 bambini. In realtà si sa bene dove si trovi gran parte di quei dispersi. Sotto le macerie di migliaia di case, edifici e palazzi abbattuti dall’aviazione.
Per le autorità israeliane queste cifre sarebbero false, gonfiate ad arte dalla propaganda di Hamas e descrivono i civili palestinesi uccisi vittime di una presunta scelta del movimento islamico e di altre organizzazioni armate di usarli come «scudi umani».
Gli aerei, affermano, puntano solo ad Hamas e alla sua rete di gallerie sotterranee. Una narrazione che i palestinesi respingono con forza mentre le organizzazioni umanitarie denunciano che i raid hanno preso di mira aree densamente popolate.
Anche la Bbc conferma attacchi su zone residenziali, anche nel sud, analizzando dati su una serie di raid compiuti fra il 10 e il 25 ottobre in settori della Striscia suggeriti da Israele come potenziale rifugio per i civili.
Gli aerei ieri sono tornati a prendere di mira il campo profughi di Jabaliya già bombardato massicciamente martedì quando i soccorritori hanno estratto dalle macerie decine e decine di morti. Ieri altri uccisi nel rione Faluja. «Una nuova strage simile a quella di martedì», ripetono gli abitanti del campo profughi più grande di Gaza. Per le Nazioni Unite il bombardamento di Jabalia potrebbe configurarsi come crimine di guerra.
Intorno a Jabaliya e al capoluogo Gaza city si combatte una battaglia cruenta, spietata, che è costata la vita a molte decine di uomini delle Brigate Qassam, il braccio militare di Hamas, e di altre organizzazioni armate decise a resistere fino all’ultimo pur di fermare l’avanzata israeliana.
E riescono ad infliggere perdite alle truppe israeliane. In totale sono 16 i soldati morti nei combattimenti, nove dei quali quando il mezzo blindato sul quale si trovavano è stato centrato in pieno e distrutto da un razzo anticarro Kornet.
Perdite ammesse dal capo di stato maggiore Herzi Halevi, che parla di «prezzo pesante e doloroso» ma «necessario». Per il portavoce militare comunque «L’operazione di terra procede come previsto». Le forze israeliane, ha detto ieri, hanno sfondato la prima linea di difesa di Hamas grazie ad attacchi congiunti da terra, aria e mare.
In attesa del ritorno domani in Israele e Giordania del Segretario di stato Blinken, l’Amministrazione Usa continua a mandare rifornimenti di bombe alle forze armate israeliane che poi le scaricano su Gaza, accompagnate da appelli per l’aumento del flusso di aiuti umanitari ai civili che subiscono quei bombardamenti.
«La nostra aspettativa è che gli israeliani nel condurre questa campagna militare lo facciano nel pieno rispetto del diritto internazionale», ha proclamato convinto il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller che poi ha ammonito Israele dal tagliare di nuovo l’accesso a Internet per i palestinesi a Gaza.
In Cisgiordania si fa sempre più dura l’azione dell’esercito israeliano – nelle ultime ore uccisi altri tre palestinesi a Jenin e arrestato il capo di Fatah nella città – e sempre più pericolosa quella dei coloni. Ocha (Onu) denunciato che dal 7 ottobre a causa dei raid dell’esercito israeliano e degli attacchi dei coloni, sono stati sfollati più di 800 palestinesi.
Un colono e deputato israeliano, Tzvi Succot (Sionismo religioso), arrestato per l’incendio doloso di una moschea, ieri è stato nominato presidente della sottocommissione della Knesset che supervisiona la Cisgiordania occupata in questioni relative alla costruzione degli insediamenti e alla gestione dei posti di blocco.
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matteo
“Potrebbe equivalere a crimini di guerra“ dicono le Nazioni Unite. POTREBBE!!! Chissà se gli uscirà anche la nuvoletta dalla testa con scritto “mumble mumble” a quei solerti funzionari dell’Onu, sempre fin troppo clementi contro uno dei crimini più brutali ed efferati della storia moderna, ovvero la creazione dell’entità sionista.
Pasquale
Qualcuno fermi questo massacro! Non è accettabile che un genocidio si compia sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno deve farsi intimorire dal falso parallelo che antisionista equivale a antisemita. E’ stato creato ad arte per produrre sensi di colpa e avere una becera giustificazione a questa carneficina.
Andrea Vannini
i crimini di guerra e contro l’ umanità dei sionisti sono iniziati perlomeno nel 1948, ora sono giunti all’ apice. ora l’ obiettivo sionista non é piu’ “solo” conservare l’ aperthaid alla quale hanno condannato il popolo palestinese. ora l’obiettivo é cancellare l’ esistenza stessa della questione palestinese cancellando il popolo palestinese. ora a gaza e dopo in cisgiordania. con un genocidio. temo che non esistano le possibilità né per una tregua né tanto meno per una soluzione pacifica. in palestina come in ucraina. le guerre contro l’ imperialismo, nella sua versione apertamente fascista, non contemplano se non la guerra all’ ultimo sangue. l’ obiettivo per gli antifascisti e antimperialisti é la vittoria russa e palestinese. se la prima é una possibilità assai concreta, per la seconda non sembra, allo stato attuale, credibile. c’ é da sottolineare che la mobilitazione contro il fascismo sionista cresce e l’ aiuto internazionalista é urgente e potenzialmente utile se non decisivo. la speranza, l’ utopia che aiuta a battersi, é che la stella di davide sionista trovi a gaza la sua stalingrado, l’ inizio della fine per la croce uncinata.
Maurizio
ViVa la Libera Repubblica di Palestina
Maria Caterina
Nemmeno una parola o un commento da parte della Segre e della sua inutile commissione contro l’intolleranza e l’istigazione all’odio su questo sterminio del popolo palestinese da parte di Israele.