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7 Novembre: Russia e non solo

Il 7 Novembre in Russia, ormai da almeno tredici anni, non è più, nemmeno ufficialmente, Festa nazionale: è un qualsiasi giorno lavorativo, quantunque chi abbia più di trent’anni continui a percepire quella data come la “propria festa”, la festa forse più grande e certamente più sentita, a dispetto delle campagne e delle rappresentazioni negative che il potere si sforza di darne.

Al suo posto, giornata festiva è diventata il 4 novembre e andrà bene se il 7 novembre, “Festa della gloria militare”, si terrà la parata sulla Piazza Rossa a ricordo di quella del 7 novembre 1941.

Proprio per cercare di instillare nelle menti delle persone una data che cadesse a poca distanza da quella dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, si sono rispolverati avvenimenti di quattro secoli fa – la liberazione di Mosca dal dominio polacco, conclusasi il 4 novembre 1612 – che, pur importanti nella storia russa, non hanno certo il significato rivestito dall’Ottobre 1917 in tutto il mondo.

Secondo le rilevazioni dell’ufficiale VTsIOM a proposito della Festa dell’unità nazionale, che si celebra dal 2005 a simboleggiare «la coesione e la fratellanza del nostro popolo multinazionale», la percentuale di russi convinti dell’unità del popolo non è mai stata così alta come quest’anno.

Emerge che il 75% degli intervistati riconosce l’importanza di tale festa, contro il 29% del 2019, in piena pandemia, e il 32% del 2022. Calata invece dal 26 al 21% la percentuale di chi giudica simili feste non importanti.

A esser precisi, quando a proposito del 4 novembre si parla di “unità di popolo”, a livello ufficiale e mediatico si tende a porre l’accento sulla unità delle decine e decine di nazionalità che compongono la Federazione russa.

Di fatto, l’intendimento politico è ben diverso, come dimostrano ripetuti eventi ai massimi vertici politici e l’essenza di quella “unità” dovrebbe consistere nel mettere fine a quella divisione tra le classi che era a fondamento di una Rivoluzione che aveva dato il potere alla classe operaia, concretizzandone la dittatura su borghesia e latifondisti.

Come ammette la stessa VTsIOM, nonostante il balzo fino al 75% dei favorevoli alla nuova festa – grazie alla massiccia campagna mediatica condotta in tutto il paese – è minima la differenza percentuale tra quanti conoscono le radici storiche della festa e l’approvano (23%) e quanti, conoscendole, la disapprovano (29%).

E questo, nonostante i diciotto anni trascorsi dalla sua istituzione, votata alla Duma a dicembre 2004 con 327 voti a favore e 104 contrari (l’intera frazione del KPRF), che decretava anche l’eliminazione della Festa del 7 novembre, anniversario della Rivoluzione socialista.

Nel corso di una puntata del talk show “Serata con Vladimir Solov’ëv” (il conduttore che forse qualcuno ricorda per aver “messo al tappeto” Bruno Vespa in un collegamento video. Intendiamoci: i due sono speculari) di poco successiva al 24 febbraio 2022, il regista Karen Šakhnazarov disse «Dopo il 1991 si non determinate due ideologie: c’é quella della classe al potere, la borghesia, mentre tra il popolo si è conservata l’ideologia sovietica. In questo risiede una contraddizione che non riusciamo a superare.

Così, Poddubnyj [Evgenij Poddubnyj, corrispondente di guerra dei canali TV Rossija-24 e Rossija-1] ha detto: “Per cosa combattono? Per la giustizia!”. Questa è ideologia sovietica. È così che vien fuori un “guazzabuglio”, e tale contraddizione, nel periodo del SVO [l’operazione militare in Ucraina] deve esser risolta.

Su tutti i canali ci mostrano la nonna con la bandiera rossa, ma poi coprono il Mausoleo. Non si deve fare! E allora, perché mostrate quell’eroica vecchietta con la bandiera rossa? Per tutti, quella è un’immagine sovietica! È l’Unione Sovietica. Le persone scrivono da mezzo mondo, piangono, quando la vedono… E invece vien fuori un “guazzabuglio”; mentre il nostro popolo è sovietico!».

E invece, nel più trito e usuale stile liberale, si proclama che tutto il popolo è unito attorno a “interessi comuni”, che la patria è la patria “di tutti”, che gli interessi salvaguardati dal potere sono quelli dell’intero popolo; un popolo la cui divisione in classi si vorrebbe esorcizzare col fatto di essere semplicemente e volutamente negata ai vertici dello stato.

Proprio questo è il significato dell’abolizione, a livello ufficiale e mediatico, dell’anniversario di una rivoluzione che, a partire proprio della messa in pratica delle analisi di Marx e Engels aveva decretato, nei fatti, che lo stato sorto dal 7 Novembre non era uno stato di tutto il popolo.

Aveva stabilito, nei fatti, l’insegnamento di Marx secondo cui come scrisse Lenin, lo stato è l’organo del dominio di classe, l’organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione.

Quella Rivoluzione aveva messo in pratica gli studi di Engels la cui conclusione, riassunta ancora da Lenin, è che lo stato è il «prodotto e la manifestazione della inconciliabilità degli antagonismi di classe. Lo stato sorge là, quando e in quanto, dove, quando e nella misura in cui obiettivamente le contraddizioni di classe non possono essere conciliate. E, di contro: l’esistenza dello stato dimostra che le contraddizioni di classe sono inconciliabili».

Lo scontro tra le classi è negato solamente «quando e in quanto, dove, quando e nella misura in cui» i portavoce governativi e mediatici delle classi sfruttatrici vogliano aggiogare la classe oppressa a trainare il carro del capitale.

E soprattutto, scriveva Lenin, nello studio che, partendo dagli insegnamenti di Marx e Engels non solo liquidava ogni chiacchiera liberale, ma metteva alla gogna l’opportunismo della II Internazionale, negli ambienti riformisti si taceva di proposito la verità che «se lo stato è un prodotto dell’inconciliabilità delle contraddizioni di classe, se esso è una forza che sta al di sopra della società e che sempre più si estranea dalla società, è chiaro che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la soppressione di quell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante e in cui questa “estraneazione” si è concretizzata».

Così, oggi, al pari di qualsiasi repubblica liberale, nella Russia uscita dal golpe del 1991-1993 si cerca di negare la sussistenza nel paese di contraddizioni di classe: semplicemente, fingendo di ignorarle e proclamando l’unità del popolo, che i malvagi bolscevichi, cento anni fa, avevano tentato di distruggere.

Avevano tentato, mettendo in pratica le conclusioni di Lenin per cui «Lo stato è un’organizzazione particolare della forza, è l’organizzazione della violenza per la repressione di una qualunque classe. … Le classi sfruttatrici hanno bisogno del dominio politico per il mantenimento dello sfruttamento, vale a dire nell’interesse egoistico di un’infima minoranza contro l’immensa maggioranza del popolo.

Le classi sfruttate hanno bisogno del dominio politico per sopprimere completamente ogni sfruttamento, vale a dire nell’interesse dell’immensa maggioranza del popolo, contro l’infima minoranza dei moderni schiavisti, cioè proprietari fondiari e capitalisti».

E contro ogni proclama borghese sulla “unità della nazione”, su un presunto “sforzo comune” per favorire “l’interesse nazionale”, Lenin affermava che «L’essenza della dottrina di Marx sullo stato è assimilata soltanto da colui che ha compreso che la dittatura di una solaclasse è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato una volta rovesciata la borghesia … Le forme degli stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi stati sono, in un modo o nell’altro, ma in ultima analisi, necessariamente, una dittatura della borghesia».

E se oggi, in Russia come in qualsiasi paese capitalistico, c’è bisogno di far dimenticare che, nel dirigere lo stato degli operai e dei contadini, funzionari e ministri, operai d’assalto e stakhanovisti, lungi dall’accumulare milioni per ville in patria e all’estero, morivano letteralmente «al proprio posto di lavoro», ancora Lenin riportava le conclusioni di Engels su quel tipo nuovo di apparato che era stata la Comune di Parigi del 1871:

«… La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la vecchia macchina statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il dominio appena conquistato, deve, da una parte, eliminare tutto il vecchio macchinario repressivo sfruttato contro di essa fino a quel momento e, dall’altra, deve assicurarsi contro i propri deputati e funzionari, dichiarandoli tutti, senza eccezione alcuna, revocabili in ogni momento…».

Engels, scrive Lenin, sottolinea ancora una volta che non solo nella monarchia, ma anche nella repubblica democratica, lo stato rimane lo stato; conserva cioè il proprio fondamentale carattere distintivo: trasformare i funzionari, «servitori della società», suoi organi, in padroni di essa.

Così che, nello Stato uscito dalla Rivoluzione d’Ottobre, sin dall’inizio si cerca di assicurarsi contro quella eventualità, purtroppo molto reale allora e divenuta la norma oggi: «la completa soppressione del carrierismo richiede che un posticino “onorifico” nel servizio pubblico, quantunque non retribuito, non possa servire da trampolino per saltare a impieghi molto lucrativi nelle banche e nelle società per azioni, come accade costantemente in tutti i più liberi paesi capitalisti».

In questo è l’essenza del potere nato il 7 Novembre e che in tutto il mondo si cerca di eliminare dalle menti delle classi oppresse.

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