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Il 7 Novembre della Rivoluzione socialista e della storia umana

Al momento di scrivere, sembra quasi sicuro che il 7 novembre, a Mosca, non debba tenersi alcuna parata militare sulla Piazza Rossa. Il lockdown per il nuovo brusco picco della pandemia, deciso dal 28 ottobre fino, appunto, al 7 novembre, esclude qualsiasi “iniziativa di massa”.

Pochi messaggi di rito sui siti web di varie organizzazioni comuniste russe, senza alcuna indicazione di raduni. Anche il sito del KPRF, che solitamente organizza manifestazioni e cortei, riporta appena il saluto di Gennadij Zjuganov per il 104° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.

Dunque, né parata militare governativa; né manifestazioni di lotta in ricordo dell’Ottobre sovietico.

In ogni caso, ormai da diversi anni, la Russia ufficiale non celebra più quella data quale anniversario della prima Rivoluzione socialista vittoriosa contro l’ordine borghese, grazie a cui si realizzò una svolta epocale, che mantiene alto il proprio valore nella lotta per la liberazione della classe operaia dall’oppressione del capitale.

Il 7 novembre, Giornata della gloria militare, è ora in Russia giorno lavorativo, e solo da qualche anno il Cremlino organizza sulla Piazza più importante della Russia una parata, rievocativa di quella del 1941, con soldati vestiti e armati come allora e mezzi militari dell’epoca.

Proprio quest’anno, nel 80° anniversario di quella storica parata, dalla quale i reparti si diressero direttamente al fronte, a pochi chilometri da Mosca, la pandemia sembra aver deciso per tutti.

In compenso, dal 2005 è uso celebrare come giorno festivo la data del 4 novembre, quale Giornata dell’unità di popolo, in memoria, si dice, del 4 novembre 1612 e della rivolta che liberò Mosca dai polacchi.

Poco diversa, insomma, dal 4 novembre nostrano, quale “giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate” in cui si predica, con le parole del Presidente della repubblica, come «Soldati, marinai, avieri, carabinieri, finanzieri e personale civile della difesa» operino in un’Italia in cui «Nazioni Unite, Alleanza Atlantica e Unione Europea, rappresentano i riferimenti della nostra politica estera e di sicurezza».

Il tutto, afferma Sergio Mattarella, «per salvaguardare i valori di libertà, giustizia e cooperazione sanciti nella Costituzione». Amen.

Vladimir Putin, quest’anno, ha celebrato il 4 novembre a Sebastopoli, sullo sfondo del nuovissimo “Monumento al 100° anniversario della guerra civile” o “Monumento alla Riconciliazione” inaugurato lo scorso aprile e raffigurante la “Madre Russia”, alla cui base sono scolpite le figure degli ufficiali bianchi che da qui si imbarcarono per l’emigrazione, dopo la sconfitta delle armate controrivoluzionarie e delle truppe straniere intervenute per soffocare la giovane Russia sovietica.

«La terra di Crimea» ha detto Putin, «intrisa del sangue dei soldati russi, conserva la memoria e il dolore di quegli eventi e costituirà simbolo eterno non solo della tragedia del conflitto fratricida, ma anche, e ciò è particolarmente importante, della successiva riconciliazione, del trionfo della verità storica e della giustizia».

A quale “verità storica” e a quale “giustizia” si riferisse il Presidente russo, non è difficile da immaginare, se ricordiamo come, appena un paio di settimane fa, avesse pronunciato la frase «...la rivoluzione non è la strada di uscita dalla crisi, ma la via per approfondire questa crisi. Nessuna rivoluzione valeva il danno da essa causato al potenziale umano».

A Sebastopoli, egli ha ricordato come, proprio dalle coste della Crimea, salpassero i vapori degli emigranti bianchi e «indubbiamente, la maggior parte di loro erano patrioti della Russia e la amavano sinceramente, allo stesso modo di coloro che rimasero per costruire un paese nuovo e, come essi pensavano, una vita migliore».

Così che, oggi, la Russia «ricorda e ama tutti i suoi figli e figlie devoti, da qualunque parte della barricata si trovassero».

Era presente alla cerimonia anche l’ex Ministro della cultura e attuale presidente della Società storico-militare russa, Vladimir Medinskij, non nuovo a inaugurazioni di targhe a generali bianchi e collaborazionisti. Il direttore della Società storico-militare, Mikhail Mjagkov, ha invece ricordato la vicenda dei due fratelli Evgenij e Mikhail Berens, entrambi ufficiali di marina, che combatterono, per l’appunto, da parti opposte “della barricata” e che, pare, avrebbero costituito il prototipo del monumento di Sebastopoli.

Unità di popolo”, dunque, in Russia come altrove: padroni e operai, sfruttati e sfruttatori, disoccupati e miliardari, tutti uniti per il bene della nazione. D’altronde, è questo “l’ordine” borghese contro cui avevano lottato e vinto i bolscevichi, alla testa di operai, contadini e soldati russi nel novembre 1917, dimostrando poi di essere in grado di governare senza e contro la borghesia.

Oggi, quando “finalmente” si è posto fine a quella divisione sociale, quando la borghesia vecchia e nuova e gli eredi dello zarismo possono respirare a pieni polmoni l’aria della nuova Russia, la nuova concordia tra ricchi e poveri può essere celebrata con perle presidenziali come «il marxismo-leninismo è una favola bella e dannosa, la cui attuazione ha causato enormi danni al nostro paese», oppure «i bolscevichi hanno distrutto ciò che spinge e unisce i popoli dei paesi civili: hanno distrutto il mercato in quanto tale, hanno distrutto il capitalismo che stava nascendo» in Russia.

Bontà sua. Peccato che la stragrande maggioranza dei russi non senta affatto questa “unità di popolo”, né dimostri di apprezzare la nuova festa del 4 novembre. E come potrebbero, se, tanto per dire, nel solo 2021, secondo il Bloomberg Billionaires Index, i miliardari russi si sono arricchiti di altri 66 miliardi di dollari (14 miliardi solo i primi cinque della classifica), mentre, in base alle cifre dell’ufficiale Rosstat, gli stipendi medi nel paese sono di circa 53.000 rubli, con punte di 160.000 nei settori energetici e 23.000 (circa 270 euro) nel tessile.

Ora, anche dal punto di vista puramente storico, qualcuno ha fatto notare che, anche accettando l’enciclica della “unità di popolo”, sembra che la data del 4 novembre 1612 non sia la scelta più felice, anche solo in ragione del fatto che i polacchi erano stati invitati a Mosca dai boiari russi quali “amici e alleati” di una parte della nobiltà contro un’altra.

E lo zar Mikhail Romanov, che dette inizio alla dinastia rovesciata nel febbraio 1917 e che, dopo il 1612, sedette sul trono, all’epoca di quelle rivolte se ne stava al Cremlino in compagnia proprio dei polacchi. E, in ogni caso, parlando di “patriottismo”, non si deve dimenticare che una di quelle due parti operava nell’interesse della Svezia, mentre un’altra era foraggiata da soldi inglesi e tedeschi.

Dunque, quell’epoca dei “torbidi” fu a tutti gli effetti una guerra civile, tanto che viene anche definita “epoca delle rivolte”: rivolte nelle città, sommosse per le tasse sul sale, sul rame, la rivolta contadina di Stepan Razin, e altre ribellioni minori, che si protrassero per buona parte del XVII secolo, durante le quali i russi si massacrarono, spesso in base alla classe di appartenenza, pur non avendone coscienza.

E, come apice di quell’epoca, l’ufficializzazione definitiva della servitù della gleba. Quella “unità di popolo” di cui si parla oggi, dunque, sembra non preannunciare nulla di buono per i “servi della gleba”, in Russia come nelle altre parti del mondo in cui impera l’ordine borghese.

A dispetto di ogni omelia pronunciata dai pulpiti del mondo capitalistico sulla “unità di popolo” o “della nazione”, proprio quella istituzionalizzazione della moderna “servitù della gleba”, sancita da leggi e cavilli delle “democrazie” mondiali, conferma che il 7 Novembre, non del solo 1917, ma della storia umana, sia all’ordine del giorno.

O, come diceva il grande Mao: «il problema è posto e va risolto».

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