Si è chiusa ieri la visita di Olaf Scholz in Cina. Con al seguito i dirigenti di varie grandi multinazionali tedesche, il cancelliere ha ribadito l’importanza dei rapporti con Pechino, così come lo aveva fatto quando era stato il primo leader europeo a recarvisi dopo la pandemia di COVID-19.
Anche questa, come quella del 2022, è stata una visita con addosso gli occhi di tutti gli osservatori internazionali occidentali. Sul tavolo di discussione vi erano questioni sia economiche sia di politica estera, che nel caso di Berlino si uniscono nel giocarsi il funzionamento del modello che ha imposto a tutta la UE.
Le diverse voci che hanno commentato sui media nostrani questo viaggio possono essere riassunte con Scholz che fa business as usual in un mondo che è in netto cambiamento. È questa la contraddizione che passa sempre meno inosservata rispetto alla politica tedesca.
Incontrando Xi Jinping, Scholz ha parlato di una pace giusta in Ucraina. Il presidente cinese ha risposto che essa si deve fondare sugli “scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite” e deve passare per una “conferenza di pace internazionale riconosciuta sia dalla Russia sia dall’Ucraina”.
Insomma, nulla di nuovo sul piano internazionale, se non l’aver ribadito che una pace è possibile, ma non senza la Russia, come vorrebbe Kiev. Ma quel che è più importante riguarda i legami economici tra Germania e Cina, che hanno importanti ripercussioni sulla strategia di derisking promossa dal G7 nei confronti del Dragone.
La crisi economica è ormai la realtà di una Germania a cui la UE è servita per costruire le sue fortune sulle vendite extra-comunitarie. La Cina è stata sempre un tassello importante di questo modello export-oriented, ma nella strategia nazionale pubblicata a luglio scorso Berlino invitava le aziende a ridurre la dipendenza da Pechino.
Ad oggi, questo processo procede però in maniera contrastante. L’IFO Institute, un centro bavarese di ricerca economica, ha fatto un sondaggio su 4 mila imprese tedesche e ha osservato che i produttori che integrano beni intermedi cinesi nelle loro filiere sono diminuiti dal 46 al 33% negli ultimi due anni.
Ma questa tendenza sembra sia arrivata al proprio limite, e soprattutto gli investimenti già programmati continuano. Mentre gli investimenti diretti esteri sono diminuiti nel complesso del 2023, quelli tedeschi sono aumentati del 4,3% secondo la Bundesbank.
Scholz è andato a fare i conti con gli oltre 250 miliardi di interscambi con la Cina, da cui Ralf Thomas della Siemens, al seguito del cancelliere nel suo viaggio, ha detto che serviranno decenni per sganciarsi. Ma anche a fare i conti con la crisi dell’automotive del suo paese.
La Cina è diventato il primo esportatore al mondo di vetture, oltre ad essere all’avanguardia nella transizione all’elettrico (con la Tesla come unico vero competitor ad oggi). Il mercato cinese rappresenta, allo stesso tempo, una platea di oltre un miliardo di possibili acquirenti, a cui le case tedesche guardano con interesse.
La Camera di commercio tedesca a Shangai ha riportato che il 70% delle aziende intervistate in un altro recente sondaggio prevede di perdere quote di mercato e profitti. In quella stessa città, Scholz ha dichiarato che l’Europa non accetterà pratiche sleali di competizione.
Ma dove può arrivare davvero la capacità di persuasione e di trattativa di Berlino? La cancelleria è stretta tra i vincoli euroatlantici di guerra al mondo multipolare e gli interessi delle aziende che non vogliono perdere il mercato cinese, ma perdono sempre più competitività su di esso.
È questo equilibrismo, tra dipendenze critiche, dazi e sanzioni, aperture di mercato, che Scholz è andato a praticare in Cina. Un compito non facile e che probabilmente ora non può che giocarsi sul breve termine, col benestare di Pechino che non vuole accelerare nessuna frattura con l’Occidente e in attesa di ulteriori sviluppi in campo internazionale.
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