Si sono appena conclusi gli Spring Meetings della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Quando si svolgono eventi come questo, per circa una decina di giorni l’attenzione mondiale è dedicata alle proiezioni e alle previsioni economiche, ma in Occidente non si vede una testata che ne colga il portato politico.
Ad esempio, con una rapida ricerca su Google, la notizia rilanciata da tutte le principali testate del nostro paese è ovviamente l’analisi del FMI sulla situazione italiana. All’inizio della scorsa settimana le stime fatte sulla crescita del PIL per il 2024 e il 2025 si sono attestate al di sotto dell’1% dichiarato dal governo.
Verso la fine degli incontri di primavera, le dichiarazioni del vicepresidente del dipartimento europeo del FMI, Helge Berger, hanno dipinto a tinte ancora più fosche il 2026. Per quell’anno il Belpaese avrà solo un +0,2% del PIL per il ridursi della spinta del Superbonus e del PNRR.
Berger rilancia la necessità di “riforme strutturali”, con particolare attenzione alle infrastrutture e all’istruzione. La solita retorica dell’istituto di Washington, che non mette in discussione le ragioni di fondo della crisi, e infatti ricorda che l’Italia potrà contare poco sul ricorso all’indebitamento, precluso dal nuovo Patto di stabilità.
C’è chi invece sottolinea che la crescita russa supererà i 3 punti percentuali, a dimostrazione di come le sanzioni a Mosca non siano servite a nulla. Se non a tornare come un boomerang sulle stesse economie occidentali e a mostrare che a essere isolata, a livello internazionale, è ormai la filiera euroatlantica.
Ma per quanto importanti, questi dati esprimono solo elementi puntuali di una dinamica storica più grande, che parla del futuro di tutte le nostre società. Questo futuro si può leggere in altri numeri, con i quali sono stati aperti gli incontri.
Circa la metà dei 75 paesi considerati i più poveri al mondo hanno visto invertirsi il trend di sviluppo che proseguiva da decenni. Inoltre, negli ultimi 5 anni il divario del reddito pro capite fra le economie ricche e quelle povere si è allargato.
Il vicecapo economista della Banca Mondiale, Ayhan Kose, ha affermato che “per la prima volta vediamo che non c’è convergenza. […] Stiamo assistendo ad una regressione strutturale molto seria, ad un’inversione di tendenza“. A pesare sono innanzitutto i conflitti, le situazioni debitorie e anche l’effetto dei cambiamenti climatici.
Uno studio appena pubblicato sulla rivista Nature, incrociando vari dati sul clima e sui redditi negli ultimi 40 anni, ha previsto che entro il 2049 l’economia globale si ridurrà del 19%. E anche qui a soffrire saranno soprattutto i paesi a basso reddito (perdita maggiore del 61% rispetto agli altri) e con minor emissioni storiche (perdita maggiore del 40% rispetto a chi è responsabile dell’inquinamento dal passato a oggi).
Gli aiuti umanitari non possono essere una soluzione, se si pensa al fatto che per ogni dollaro che arriva in questa forma, 10 ne escono per andare in paradisi fiscali. Gli ultimi dati elencati mostrano come il problema sia nel ladrocinio della ricchezza sociale di cui sono responsabili gli strati privilegiati della società, e la politica di rapina delle multinazionali.
Ma, ancor più importante, palesano come ci troviamo di fronte a un punto di svolta della storia, in cui il capitale occidentale ha esaurito qualsiasi capacità di distribuire qualche briciola di sviluppo, pur affermando il proprio dominio imperialistico. Anzi, il tentativo di mantenere questo dominio, insieme ai margini di profitto, approfondisce le crisi militari e fa dimenticare in fretta i propositi di conversione green.
La metà dei 75 paesi citati all’inizio dell’articolo sono nell’Africa subsahariana, che negli ultimi anni ha visto affermarsi – non a caso – vari governi fortemente antioccidentali in un’area che subisce pesantemente gli effetti del riscaldamento globale. Questi eventi vanno letti come risultato di una dinamica storica che sta evolvendo verso nuovi scenari.
Una fase storica del capitale occidentale, che si era potuta prolungare con l’apertura dei mercati dell’ex blocco sovietico e le delocalizzazioni in Estremo Oriente, è ormai arrivata a saturazione. Washington e Bruxelles non hanno altre soluzioni a questa crisi se non quella di spingere sul confronto muscolare con gli altri attori internazionali.
Per questo oggi il multipolarismo, la possibilità di sviluppare rapporti e ipotesi politiche in autonomia rispetto alla filiera euroatlantica, è la principale opportunità per affrontare le sfide globali dei prossimi decenni.
Multipolarismo non significa necessariamente “progresso”; significa che si aprono finestre di occasioni da cogliere, questa volta non predeterminate dalle centrali imperialistiche occidentali.
Dove il multipolarismo ci porterà starà ovviamente a come le diverse soggettività in campo (stati, movimenti, classi sociali organizzate, ecc) interpreteranno il proprio ruolo in questi processi storici e sapranno così pesare sulla loro evoluzione.
La necessità di costruire una soggettività all’altezza del futuro che ci aspetta anche nel nostro paese, con in testa la trasformazione socialista e il superamento del capitalismo, è sempre più impellente.
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