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La comunità ezida a dieci anni dal genocidio 

Dicono gli ezidi che il male non esiste e che tutto quello che succede è voluto da Malek Ta’uss, l’Angelo Pavone da loro adorato. Sarà così, ma il genocidio compiuto dall’ISIS nel 2014 è una ferita ancora aperta e sanguinante. 

Il 3 agosto di dieci anni fa l’ISIS ha aggredito i villaggi ezidi del distretto di Shengal, nella vallata di Ninive, nel nord-ovest dell’Iraq. Alcuni sono stati letteralmente cancellati, come quello di Kocho, nella parte a sud.

Le donne e i bambini sono stati rapiti, tutti gli altri sono stati uccisi e gettati in fosse comuni. Le donne sono state vendute come bottino di guerra e usate come schiave, violentate ripetutamente. I bambini hanno imbracciato le armi, non quelle giocattolo, ma quelle vere, quelle che sparano, ferendo e ammazzando. La conversione all’islam è stata imposta con la forza, nessuna possibilità di scelta, l’alternativa la morte. Oggi ancora 2.693 persone rapite attendono di potersi liberare dalla stretta dell’ISIS.

Circa 350.000 persone sono riuscite a scappare e attualmente metà di queste vive ancora nei campi profughi nella Regione del Kurdistan iracheno. Questi avrebbero dovuto sgomessere sgomberati lo scorso 30 luglio, ma il governo federale e quello del Kurdistan iracheno hanno concordato di posticipare, nuovamente, la loro chiusura. Rimane sul tavolo l’offerta di circa $3.000 per ritornare nel distretto volontariamente, cifra giudicata molto al di sotto delle reali necessità di reinsediamento. 

Alcuni paesi, l’ONU e il Parlamento Europeo hanno riconosciuto il genocidio. L’ha fatto anche l’Iraq nel 2021, quando ha approvato la Yazidi Female Survivors Law con la quale sancisce il diritto delle persone rapite dall’ISIS e liberate a ottenere un sostegno materiale e psicologico da parte dello Stato. Ma purtroppo la burocrazia frena le richieste e la legge si perde nel nulla. 

Troppe cose mancano a Shengal e impediscono a chi ancora vive nei campi profughi di tornare e a chi invece ha già fatto rientro di ricostruire una vita libera, pensando al futuro. Servizi carenti o persino inesistenti in alcune zone, così come le case, spesso rappresentate da tende dell’UNHCR e di Save the Children, in un contesto dove milizie di diversa origine, a tutela di differenti interessi, rendono estremamente pericoloso un territorio che è persino cosparso di mine, lascito dei miliziani del Califfato ormai in fuga nel 2017. 

L’Accordo di Shengal, siglato nell’ottobre del 2020 dal governo centrale iracheno e da quello della Regione del Kurdistan iracheno, con il lasciapassare dell’Unami, la Missione delle Nazione Unite in Iraq, è un motivo che si aggiunge a complicare la situazione. Voluto per cercare di mettere ordine tra le pretese di Baghdad e Erbil su quel territorio, l’accordo ha escluso gli ezidi dalla negoziazione, nonostante siano loro i destinatari degli effetti che produrrà. E così l’Amministrazione Autonoma di Shengal, sorta quando le prime famiglie sono tornate a ripopolare il distretto una volta che il Califfato si è dissolto, si oppone alla sua implementazione, considerandolo lesivo di alcuni loro diritti.

L’Amministrazione Autonoma è il frutto dell’abbraccio tra gli ezidi e il paradigma del confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Ocalan, leader del PKK. Il PKK invece è il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, nato nel 1978 in Turchia, che insieme alle unità di Resistenza del Rojava ha salvato la popolazione ezida in fuga dall’ISIS, mentre i peshmerga del KDP, partito che governa la Regione del Kurdistan iracheno, abbandonavano l’area.

L’influenza del PKK in quella zona di confine che unisce Shengal al Rojava, in Siria, è vista come una minaccia dalla Turchia che con i droni lanciati sulle unità di resistenza ezide cerca di risolvere la situazione.

Non è certamente una zona tranquilla Shengal, sotto diverse sfere di influenza, inclusa quella iraniana, attraverso le milizie irachene sciite Hashd al Shaabi. Eppure gli ezidi che vi hanno fatto ritorno si ostinano nella ricostruzione di case, servizi e lavoro accettando il contributo di Ong e governi stranieri ma mettendo in chiaro un punto fondamentale: l’Autonomia non si discute, così come l’esistenza delle proprie milizie di autodifesa (YBS, YJS e Asaysh). L’ultimo genocidio ha insegnato che l’autodifesa è irrinunciabile per la propria sopravvivenza. 

Il tempo scorre e corre per un popolo che resiste e non vuole farsi annientare. Diventa urgente ricostruire e restituire ai giovani e alle famiglie dei sogni per il futuro perché molti, troppi scelgono di non ritornare o di emigrare. Lo spopolamento del distretto può diventare la condanna all’estinzione, contro la quale gli ezidi si sono battuti lungo tutta la loro storia ultramillenaria. 

Fate riconoscere il genocidio al vostro Parlamento!”, questo è l’appello che rivolgono a ogni visitatore, a ogni associazione, a ogni politico. L’Associazione Verso il Kurdistan odv ha raccolto questo appello e l’anno scorso, dopo il viaggio di monitoraggio dei progetti nel distretto, è ritornata con l’impegno di fare il possibile perché l’istanza degli ezidi arrivasse in Parlamento. Così è stato e la mozione redatta dal Comitato diritti umani nel mondo, presieduto dall’On. Laura Boldrini, è pronta e attende che il Parlamento decida di calendarizzarla. 

Nell’anno del decimo anniversario dell’ultimo tragico massacro subito da questo popolo coraggioso, il Parlamento italiano potrebbe contribuire a fare quello che altri paesi hanno già fatto: riconoscere il genocidio del 2014. 

 

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