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Il più grande scambio di prigionieri tra USA e Russia nella storia

Ieri è avvenuto il più grande scambio di prigionieri nella storia delle relazioni tra Russia e Stati Uniti, e in generale il più grande nella storia del paese oltre oceano. I numeri variano, ma sembra si sia trattato della liberazione di 24 prigionieri, 16 da parte di Mosca (e Minsk) e 8 da parte di Washington e i suoi alleati.

I russi hanno rimesso in libertà alcuni loro cittadini, tra cui molti collaboratori di Navalny che, secondo il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, sarebbe dovuto essere coinvolto nell’accordo. Dalla loro parte sono stati rilassciati anche cittadini statunitensi e tedeschi.

L’Occidente ha invece liberato persone detenute negli Stati Uniti, in Germania, in Slovenia, in Norvegia e in Polonia. I servizi segreti di tutti questi paesi, con un ruolo centrale della CIA, hanno preso parte alle trattative, anche se la mediazione principale è stata svolta dall’intelligence turca.

Per Erdogan è un’altra vittoria, affermando di nuovo il peso del proprio paese nel Medio Oriente e negli equilibri mondiali. La sua posizione all’interno della NATO, e tuttavia interlocutoria con Mosca, gli hanno permesso di assumere un ruolo di primo piano dopo l’intervento russo in Ucraina.

Anche i democratici statunitensi hanno messo a segno un bel colpo, con il presidente Joe Biden e la candidata alle elezioni di novembre Kamala Harris ad accogliere i prigionieri tornati negli USA. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha voluto ricordare che durante la sua amministrazione sono stati riportati negli Stati Uniti oltre 70 loro cittadini.

Il candidato repubblicano Donald Trump ha invece attaccato l’accordo. Il tycoon ha insinuato che siano stati pagati anche dei soldi per ottenere il rilascio delle persone, il che rappresenterebbe “un cattivo precedente per il futuro“. Sullivan ha escluso categoricamente questa possibilità.

Tra i prigionieri liberati da parte occidentale c’è anche Pablo Gonzalez. Giornalista nato in Russia col nome Pavel Rubtsov, ma da genitori baschi (repubblicani inviati nell’allora Unione Sovietica), è tornato in Spagna dove ha preso il cognome della madre, ha spagnolizzato il suo nome e ha cominciato a svolgere l’attività di giornalista, legandosi spesso a testate della sinistra extraparlamentare.

Queste frequentazioni, così come l’aver documentato la guerra civile in Donbass, sono probabilmente all’origine della detenzione voluta da Varsavia. Pochi giorni dopo l’attacco russo nel febbraio 2022, Pablo si trovava al confine polacco per un servizio sulla crisi dei profughi ucraini, e venne arrestato.

Per due anni e mezzo, in pratica, si è trovato in prigione senza che venissero formulate accuse precise, ma con la proroga continua della detenzione preventiva. Il governo spagnolo di centrosinistra, così come i suoi diplomatici, non hanno mai mosso un dito a suo favore, e anzi hanno avallato le azioni della Polonia.

Oggi può tornare a casa.

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