Il tendone alzato da Ramzi Kisiya dal 31 luglio è il simbolo della resistenza della sua famiglia contro la confisca delle terre palestinesi nella zona nota come Makhrour, alle porte di Beit Jala, a ovest di Betlemme.
«Ogni giorno vengono qui in tanti: palestinesi, stranieri, anche israeliani che lottano assieme a noi contro la prepotenza dei coloni che occupano le nostre terre. È l’unico sostegno sul quale possiamo contare perché la Chiesa, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) e i partiti politici non ci hanno aiutato in alcun modo», ci dice Kisiya, palestinese cristiano, che sostiene di essere in possesso di documenti di proprietà riconosciuti dalle autorità israeliane.
«Poi qualche anno fa, quei documenti all’improvviso non sono stati più validi. Mi hanno detto che i nostri terreni sono parte della terra dello Stato e di una zona verde, non edificabile. Poi sono arrivati i coloni israeliani che, protetti dall’esercito, fanno ciò che vogliono e hanno allestito un loro avamposto», aggiunge l’uomo presentandoci la moglie e la figlia, protagoniste della mobilitazione contro l’occupazione dei terreni di famiglia.
Makhrour, divenuta patrimonio dell’umanità nel 2014 per decisione dell’Unesco assieme a Battir, è una delle aree più belle della Palestina con i suoi terrazzamenti e muretti a secco di origine antica. Destinata sin dall’antichità all’agricoltura e nota per i sofisticati sistemi di irrigazione, testimonianza di migliaia di anni di attività umana, oggi è un’area coltivata da famiglie palestinesi.
Il sito è ampio 11 chilometri quadrati che includono i villaggi di Husan, Battir e Walaje e le città di Beit Jala e Khader.
«Mio padre ha investito tutto in questa terra che è un dono di Dio. Aveva anche costruito un ristorante e una piscina, ma gli israeliani hanno distrutto ogni cosa. E quando ha provato a ricostruire, sono tornati a buttare giù tutto» racconta Ranin, la figlia di Ramzi Kisiya.
La ragazza si allontana per andare a salutare gli ultimi arrivati, due attivisti di Combattenti per la Pace, nel pomeriggio arriveranno decine di militanti di Free Jerusalem.
Il paesaggio che si può ammirare dal tendone è mozzafiato, i tramonti sono spettacolari. «Anche per questo ci rubano la terra – afferma Ramzi Kisiya – è bella e non accettano che sia nelle mani degli abitanti palestinesi. (Gli israeliani) Ci hanno tolto quasi tutto e ciò che resta cercano di prenderlo producendo documenti falsi e usando le loro corti per sentenze già scritte».
Negli ultimi dieci anni l’Amministrazione civile ha più volte demolito alcune delle piccole strutture costruite dai contadini; quindi, nel 2019 ha abbattuto di nuovo la casa e il ristorante che avevano costruito i Kisiya. Su un terreno adiacente è stato prontamente costruito un avamposto di coloni.
Nonostante i tentativi della famiglia di entrare nei suoi terreni, i soldati hanno costretto gli attivisti e i Kisiya a restare a distanza dalle terre occupate proclamate «zona militare chiusa».
Nella vicenda è entrato negli anni passati anche il Fondo nazionale ebraico (Keren Kayemet Le Israel, fondato nel 1901 per acquisire terreni in Palestina per l’insediamento ebraico, è una delle massime espressioni del movimento sionista).
La sua sussidiaria, Himanuta, afferma che il terreno dei Kisiya sarebbe stato acquistato decenni fa da un oscuro proprietario terriero locale. Il ruolo del Kkl nel permettere ai coloni di impossessarsi delle proprietà palestinesi ed espandere gli insediamenti è cresciuto in questi ultimi anni. E aumenterà ancora, si prevede.
Tutta l’area di Battir è al centro di una offensiva da parte delle attività di insediamento israeliano. A gennaio l’associazione Emek Shaveh ha documentato la distruzione di terrazze agricole e lo sradicamento di ulivi.
Sviluppi simultanei in diverse località all’interno del sito patrimonio dell’umanità hanno portato alla nascita dell’avamposto coloniale di Ain Bardamo nel dicembre dello scorso anno. I suoi confini non sono stati sottoposti a mappatura di precisione, in sostanza i suoi abitanti possono allargarsi come vogliono.
L’Amministrazione civile (che per conto dell’esercito si occupa della popolazione palestinese sotto occupazione) ha emesso un ordine di sfratto per i palestinesi, trasformando i coloni dell’avamposto illegale in un esecutore.
Fine di tanta attività di insediamento è quello di interrompere la continuità territoriale palestinese a ovest di Betlemme. Un progetto che si aggiunge a quelli precedenti e in corso, come l’ampliamento della strada 60 a Beit Jala, e ai piani per espandere il vicino insediamento di Har Gilo.
Il mese scorso, l’ong Peace Now ha denunciato il piano governativo per la costruzione dell’insediamento di Nahal Heletz. L’area assegnata si trova a una distanza di poche decine di metri dalle case di Battir. Nahal Heletz è in linea con la decisione del gabinetto approvata nel febbraio 2023 di stabilire la colonia di Sde Boaz in modo da creare un blocco di insediamenti continui tra Gush Etzion e Gerusalemme.
«Così facendo – scrive lo studioso Yonathan Mizrahi – si frammenta lo spazio palestinese e si privano le comunità locali del loro patrimonio naturale e culturale. Israele viola direttamente la Convenzione del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, di cui è firmatario».
Gli Accordi di Oslo tra Israele e Olp avevano designato l’area di Battir e Makhrour come una «zona di conservazione» che Israele avrebbe dovuto trasferire subito al controllo dell’Anp. Non è mai avvenuto perché, afferma Tel Aviv, i palestinesi vi costruiscono case.
«Per il governo Netanyahu le costruzioni palestinesi danneggiano la natura, ma quelle dei coloni israeliani no», commenta con amarezza Ramzi Kisiya.
* Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
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