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Israele, ultima frontiera del colonialismo occidentale

Nei docufilm sulla seconda guerra mondiale ricordo di aver sempre visto le facce scure, quasi contrite, dei soldati tedeschi, ad esempio, durante le azioni di rastrellamento oppure prima di una esecuzione. Invece i militari dell’IDF, quando compiono le loro azioni criminali, a Gaza o in Cisgiordania, nelle tantissime immagini che ci arrivano (soltanto dai social), ci appaiono sempre sorridenti, eccitati, divertiti, quando, non addirittura, entusiasti per le cose orribili che stanno facendo.

Foto e video che non si vergognano affatto di pubblicare su Instagram o Tik Tok. Non so se assumano cocaina o altri stupefacenti, ma è certo che c’è, in tantissimi militari delle forze di occupazione israeliane, un forte elemento di sadismo, di cattiveria gratuita e non capisco se hanno quelle facce perché sono incoscienti, oppure, invasati. Forse, tutt’e due le cose.

Di certo, nell’ideologia sionista – con cui sono stati pesantemente indottrinati sin da piccini – c’è una fortissima componente di razzismo che li induce a trattare i poveri inermi civili palestinesi come cose, oggetti, sub-umani. Ma poi mi ricordo che, in fin dei conti, anche tutti i colonialismi del passato erano basati sulla de-umanizzazione dei popoli colonizzati e sulla violenza come elemento centrale, strutturale, del dominio dei colonizzatori sui colonizzati.

 «Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’” aveva detto, non molto tempo fa, Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze del governo Netanyahu, intervenendo a Parigi a una cerimonia commemorativa per Jacques Kupfer, un esponente della destra israeliana. Il popolo palestinese, aveva spiegato, “ è una finzione elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista” .

Ma la teoria di Smotrich sulla «non esistenza» dei Palestinesi e del popolo palestinese non è certo una novità. Si tratta di una vecchia invenzione dai primi sionisti giunti dall’Europa in terra di Palestina. Il Sionismo dei primi decenni si basava proprio sulla negazione dei nativi palestinesi. Il nocciolo primordiale di questa narrazione era che gli ebrei, grazie ai sionisti, «tornavano dopo duemila anni di esilio nella loro terra». E i palestinesi? Una “creazione a tavolino” per ostacolare il ritorno alla “terra promessa ” secondo i dettami della Torah. Non ci sono palestinesi ma soltanto terroristi arabi, veri o potenziali. Ecco perché uccidono, di proposito, i bambini. Lo fanno i cecchini dell’IDF mirando alla loro testa come hanno testimoniato i medici dell’ospedale pubblico Europeo di Gaza che hanno lavorato come volontari a Gaza per la popolazione.

Correva l’anno 1969 e la “laburista” Golda Meir, icona indiscussa del movimento sionista in una intervista al The Sunday Times dichiarò che «Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano». Ecco perché, a decenni di distanza, la maggioranza degli israeliani ebrei continua a credere che i palestinesi (compreso il milione e mezzo che vive dentro Israele) non abbiano alcun diritto perché il popolo palestinese, semplicemente, “non è mai esistito”.

La deumanizzazione dei palestinesi e la cancellazione della loro identità è funzionale alla violenza ed all’oppressione che il popolo palestinese è costretto a subire, tutti i giorni, spesso con pretesti banali, dalla polizia, dall’esercito di occupazione e dai coloni. Ecco perché gran parte degli ebrei israeliani ritiene legittimo che una striscia di terra di 360 chilometri quadrati che contiene 2 milioni e mezzo di civili sia sottoposta ad un incessante bombardamento che va avanti da più di 10 mesi durante il quale sono state lanciate 8.500 tonnellate di bombe causando la morte di almeno 50.000 civili ( più 130.000 dispersi secondo l’autorevole rivista scientifica The Lancet).

Frantz Fanon nei “I dannati della terra” (saggio scritto nel 1961) sviluppa la sua teoria della violenza applicata al mondo coloniale.

Quest’ultimo viene definito da Fanon come un mondo a scomparti, caratterizzato da una doppia natura e descritto nel modo seguente: “La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù” [1].

Nella tragica vicenda del colonialismo sionista ai danni del popolo palestinese, la prima città è Tel Aviv. La seconda è simile, in tutto e per tutto, alle città della Striscia di Gaza:  Bani Suheila, Beit Hanun , Beit Lahia, Dayr al-Balah, Gaza, Jabalya, Khan Yunis, Rafah. 

[1] Frantz Fanon, “ I dannati della terra” , prima edizione 1961

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