Tra i vari messaggi che mi sono arrivati tramite Whatsapp ho ricevuto uno con la locandina per una manifestazione nazionale per il 5 dicembre a piazza del Popolo a Roma, con l’immagine di una stella di Davide e con due slogan: “no anti-semitismo” e “no terrorismo”.
A mio giudizio, e per gli slogan di lancio, era una manifestazione di sostegno di una parte del conflitto, senza alcuna volontà di cercare la pace e con certezze granitiche quali “chi è contro è antisemita, qualsiasi cosa dicano” (ma i palestinesi sono semiti!) e come il nemico sia “terrorista”. Punto e basta.
Chi mi ha scritto è di religione cattolica, ma evidentemente vicino alle ragioni di una parte precisa.
Per storia e convinzioni personali non ho mai diviso il mondo in bianco e in nero e quindi ho cercato di dialogare con chi mi aveva scritto cercando di spiegare un punto di vista diverso.
Ho ricordato come la Torah insegna che “lo straniero che abita tra voi è come uno di voi, lo amerai come te stesso, perché anche voi foste stranieri in Egitto” e come è necessario vedere il dolore del mio nemico e come l’odio ci trasforma nel nemico che respingiamo.
La risposta che ho avuto è una serie di post con la descrizione dei crimini avvenuti il 7 ottobre (bambini decapitati, donne violentate, persone orrendamente bruciate e l’affermazione di un noto rabbino, che però non parla di pace ma del loro dolore o peggio.
Ho evitato di rispondere se quanto descritto fosse vero o falso, ma la mia riflessione è che anche da parte palestinese potrebbero (e possono) descrivere uguali crimini e sofferenze, perché il punto, che non ha mai sfiorato il mio interlocutore, è che da qualche parte e da qualcuno la catena dell’odio va interrotta, specialmente perché lo Stato israeliano non è incolpevole, essendo colonialista, potenza occupante più volte condannata dall’ONU e forte di un esercito potente che non rischia alcun genocidio.
Quello che è evidente da questo breve scambio di opinioni è che esiste un muro di non comunicabilità, che solo la pazienza e la costanza, ma anche l’essere disposti al dialogo può con fatica superare.
Non entro nel merito di come i palestinesi vivono e descrivono questo conflitto, perché dovrebbero essere loro a farlo, ma voglio esternare una mia esperienza di vita per capire come gli ebrei, o per lo meno i loro zeloti, siano giunti a una radicalità sulla questione Palestina-Israele.
Molti anni fa, ero poco più che ragazzino, forse a cavallo del 1970, e nella sala degli incontri della mia comunità valdese di Roma fui presente a un convegno sull’“apartheid” in Sudafrica e di come i “neri” fossero sottoposti a oppressione.
Rimasi colpito dall’incontro perché tempo prima mi avevano raccontato come i valdesi nei secoli passati fossero stati perseguitati, nel medioevo per stregoneria e con l’inizio dell’età moderna perseguitati come eretici, con grandi stragi sia a sud che in nord Italia e come molti valdesi fossero scappati in Germania, in Olanda, in America del nord e appunto anche nell’Africa del sud.
Crescendo e leggendo scopersi che un leader dell’Apartheid sudafricana era un discendente di emigrati protestanti scappati da Meridol, città valdese del sud della Francia che subì un massacro intorno al 1540 e che tale politico fosse di origine valdese lo confermava il cognome, Malan, tipico dei valdesi, tanto più che l’unico parlamentare (e di destra) valdese ha appunto questo cognome.
I valdesi, però, allora non si schierarono con i “bianchi” boeri “riformati” (e valdesi), ma con gli oppressi “neri”, perché la loro idea di cristianesimo li ha sempre portati a schierarsi con chi soffre.
Una ragione per cui i valdesi, allora come oggi, sono per la laicità dello Stato, perché nessuna ragione “teologica” giustifica imporre la propria idea di vita agli altri, ma al contrario “consolare”, perché tutto ciò di violento avvenuto contro di loro li spinge a proteggere chi subisce sopraffazione oggi.
Nella comunità ebraica, visto i secoli di persecuzione e la shoà subita dal nazismo, dovrebbe spingere questa comunità a identificarsi ed essere vicino ai palestinesi oppressi, ma questo non è, o lo è solo per piccole minoranze come i rabbini “ortodossi” picchiati selvaggiamente in Israele.
La differenza tra i valdesi e gli ebrei è che i primi non hanno mai costituito uno “Stato nazionale” rimanendo solo comunità religiosa e cittadini del paese in cui vivono, nonostante abbiano un legame affettivo con le “valli valdesi” per loro luogo di rifugio ed antico “ghetto alpino”.
Chi critica la costituzione dello Stato di Israele tra gli ebrei è proprio per questo motivo, perché costituire uno “Stato”, per di più ebraico, significa entrare nelle logiche più vincolanti e violente del “mondo”, logiche di cui sono primi promotori gli zeloti, con in più negli zeloti l’idea che uno Stato ebraico è l’unica forza (militare) che può difendere gli ebrei in Israele e nel mondo.
Qui non sto dicendo che va annientata la repubblica di Israele, ma è proprio la natura per cui è stata pensata la sua costituzione è la negazione di quanto positivo è ed è stato l’ebraismo, tanto più che l’unico confine interno tra Palestina ed Israele è quello deciso dall’ONU nel 1947, tutto il resto è conseguenza di conquiste violente mai riconosciute dalla comunità internazionale (che è l’ONU, non le scempiaggini razziste dette dai leader occidentali).
Per raggiungere la pace è perciò necessario capire e vedere il dolore del proprio avversario, Itzak Rabin lo aveva tentato ma è stato assassinato da uno zelota.
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