Il ministro dell’Economia tedesco, il verde-liberale Robert Habeck, ha confermato mercoledì che il prodotto interno lordo del Paese è destinato a ridursi per il secondo anno consecutivo e ha attribuito la colpa della crescente debolezza dell’economia ai “fallimenti degli ultimi decenni”.
Il governo tedesco prevede ora una contrazione dell’economia dello 0,2% quest’anno, mentre in precedenza aveva previsto una crescita dello 0,3%, ha dichiarato Habeck ai giornalisti.
“La ripresa viene quindi nuovamente ritardata, ma ora principalmente non a causa di fattori ciclici che sono peggiorati o si sono sviluppati più lentamente, ma perché i fattori strutturali la rendono molto più difficile”.
Habeck ha attribuito la debolezza economica della Germania non tanto alle politiche della coalizione di tre partiti al governo, ma piuttosto a problemi strutturali di lunga data che sono stati “incorporati” nell’economia per decenni – in particolare la mancanza di investimenti nelle infrastrutture e la scarsità di manodopera qualificata.
Sembra evidente che il ministro in questione scambi gli effetti (“investimenti in infrastrutture “e “carenza di manodopera qualificata”) per le cause, toppando quindi clamorosamente la “prognosi” per superare la crisi (ricordiamo che per definire una fase come “recessione” servono due trimestri di crescita negativa, mentre qui si sta parlando già di due anni).
Citare quei due problemi significa infatti mettere sotto accusa la politica di tutti i governi tedeschi, almeno negli ultimi 20 anni, relativamente agli investimenti pubblici e alla formazione professionale (come minimo). Il che, inevitabilmente, porta a criticare duramente il “modello economico” scelto dalla Germania ed imposto a tutta l’economia europea tramite l’Unione, i cui ha rappresentato sempre un primus inter pares.
Si tratta, com’è noto, del “modello export oriented”, detto anche mercantilismo. Ovvero un sistema programmaticamente mirante a realizzare la maggior parte dei profitti con le merci da esportazione, abbassando o congelando i salari interni (obiettivo realizzato con le “leggi Hartz IV”, all’inizio degli anni 2000, con il governo del “socialdemocratico” Schroeder, che aveva anche legalizzato i mini-job, o “lavoretti”).
Quel modello si era imposto su tutte le filiere di contoterzisti della produzione tedesca (Italia in testa, specie il Nordest), realizzando grandi guadagni privati ma impoverendo drasticamente la “domanda interna”, ossia la capacità di spesa di lavoratori e pensionati.
Un assetto che alla lunga ha esposto le grandi imprese esportatrici a stop provocati dalle crescenti tensioni internazionali (le “sanzioni alla Russia” e soprattutto la distruzione del gasdotto North Stream hanno demolito due pilastri del sistema mercantilista tedesco), ma hanno anche eroso gravemente la coesione sociale, aprendo uno spazio gigantesco all’avventurismo neonazi.
La demolizione del “modello sociale” era infatti fin troppo chiaramente responsabilità della “Grosse Koalition” (democristiani e socialdemocratici) che aveva monopolizzato i governi del nuovo millennio.
Ora tutti i nodi stanno arrivando contemporaneamente al pettine. E l’attuale governo si ritrova di fatto bloccato proprio da quel “pilota automatico” che aveva “costituzionalizzato” nella convinzione che avrebbe impedito il ritorno alla “spesa facile” e quindi all’espansione del debito pubblico.
La risposta di Berlino alla crisi del modello, spiega anche il ministro liberale (la Storia ha un’ironia devastante) è stata limitata da un freno costituzionale al debito che limita il deficit federale allo 0,35% del PIL, tranne che nei momenti di emergenza. Il che significa impedire qualsiasi “stimolo” di una certa importanza, che vada al di là di piccoli aggiustamenti.
Politicamente tutto è cominciato a precipitare. A settembre la notizia che la casa automobilistica Volkswagen stava considerando di chiudere gli stabilimenti nazionali per la prima volta in assoluto ha fatto capire a molti tedeschi la portata dei problemi del Paese. Si sono presto aggiunte le analoghe crisi di Mercedes e Bmw, ovvero di tutto il comparto automobilistico, cuore pulsante dell’economia di Berlino.
A questo sviluppo ha fatto seguito la decisione del produttore di chip Intel di sospendere i piani di costruzione di un impianto da 30 miliardi di euro in Germania. E così.
L’avanzata neonazi in Sassonia, Turingia e Brandeburgo (tutti land dell’ex Ddr) ha messo di fronte ad un esito che avrebbe dovuto essere considerato scontato già da anni: l’impoverimento sociale e la “disponibilità socialdemocratica” alle politiche neoliberiste porta ad una reazione inevitabilmente feroce e di estrema destra. Contro cui a poco servono i richiami all’”unità antifascista” lanciati dagli stessi soggetti che hanno voluto quella demolizione di salari e diritti.
Ora i membri “di sinistra” della coalizione semaforo – il Partito Socialdemocratico (SPD) e i Verdi – sono favorevoli a un allentamento delle rigide regole di spesa, mentre i Liberi Democratici, conservatori dal punto di vista fiscale, vogliono che tali regole siano rispettate. L’impasse politica, ovvaiamente, può solo peggiorare la situazione…
E a destra, seppure solo sul piano strettamente economico, va anche l’impostazione dei democristiani: “C’è la minaccia di una spirale negativa, che ci porterà a rimanere in questa difficile situazione economica nei prossimi anni”, ha dichiarato Carsten Linnemann, leader dell’Unione cristiano-democratica conservatrice (CDU).
Il Paese, ha aggiunto, ha bisogno di un’agenda economica ambiziosa che “crei libertà e rimetta in primo piano la performance”.
Più neoliberismo per combattere gli effetti di una politica economica neoliberista, insomma. Come quei tossicodipendenti che devono aumentare la dose di eroina per avere la stessa sensazione. Non finisce mai bene…
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