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In memoria del professor Saibaba, comunista indiano

È morto sabato, a cinquantasette anni, il professor Saibaba, intellettuale indiano di spicco sempre al servizio degli oppressi. La sua morte, causata dal peggioramento del suo stato di salute dopo dieci anni di carcere per motivi politici, rattrista profondamente tutti coloro che credono in un mondo migliore.

Proveniente da una famiglia contadina del Telangana, a cinque anni contrae la poliomielite, che lo costringe in sedia a rotelle. Nonostante la malattia, riesce ad andare a scuola (racconterà più volte nelle interviste che sua madre, pur di farlo studiare, lo accompagnava ogni giorno a scuola in braccio) e a laurearsi all’Università di Hyderabad, per poi ottenere una cattedra di inglese alla Delhi University.

Saibaba, però, non è stato solo un docente universitario brillante, ma è anche un attivista politico sempre in prima linea, militando nella Radical Students’ Union prima – ai tempi della Mandal Commision e delle lotte per difendere le reservation di Adivasi e Dalit degli anni Novanta – e del Revolutionary Democratic Front (RDF) poi, un’organizzazione messa fuori legge nel 2012 per sospette attività sovversive vicine alle istanze maoiste.

Forte oppositore dell’Operazione Green Hunt, il primo piano del governo indiano per contrastare in modo radicale – con una vera e propria guerra – la guerrilla maoista nell’India centrale, non ha mai temuto di denunciare la violenza dello Stato indiano. Nel 2014 (anno in cui Modi inizia il suo primo mandato) si apre un processo contro di lui per presunti contatti con il Communist Party of India-Maoist che, con fasi alterne, lo terrà nel carcere di Nagpur in una cella di isolamento fino alla sua assoluzione definitiva a marzo 2024.

È un processo profondamente politico, che incarna perfettamente il rafforzamento dell’apparato repressivo dello Stato indiano, con l’applicazione di leggi antiterrorismo quali l’Unlawful Activities (Prevention) Amendment Act (UAPA) del 1967 per incarcerare senza processo e senza prove numerose attiviste e attivisti che si battono contro la predazione di risorse e l’impoverimento di ampie fasce della popolazione (a maggior ragione dopo gli emendamenti del 2019, che hanno reso questa legge ancora più draconiana), sulla cui legittimità le stesse Nazioni Unite hanno sollevato parecchi dubbi1.

Accusare qualcuno di essere urban naxalite (naxalita urbano) è, infatti, diventato oggi un modo semplice e veloce per reprimere ogni forma di dissenso e attivismo politico. Nel 2017 è di nuovo condannato all’ergastolo, insieme ad altre cinque persone, per poi essere assolto dalla Corte Suprema nel 2022 e rimandato a giudizio dalla Corte di Sessione.

In questi dieci anni il suo stato di salute peggiora notevolmente a causa delle terribili condizioni di detenzione, tanto che dopo la sua assoluzione definitiva e il suo rilascio il 5 marzo 2024 racconta che «Sono vivo per miracolo. Quando sono entrato in carcere, non avevo altri disturbi oltre alla mia disabilità. Ora il mio cuore funziona solo al 55% e sto affrontando complicazioni muscolari. Anche il fegato, la cistifellea e il pancreas sono stati colpiti. La mia mano destra funziona parzialmente. I dottori mi dicono che ora ho bisogno di molte operazioni chirurgiche»2.

E proprio durante uno di questi interventi, che avrebbero dovuto ripristinare uno stato di salute profondamente provato dalle terribili condizioni detentive, è morto ieri il Professore e Compagno Saibaba.

La sua storia non può non richiamare alla memoria una vicenda simile: quella di Stan Swami, difensore dei diritti degli Adivasi in Jharkhand, arrestato all’età di ottant’anni con l’accusa di presunti legami con i maoisti e rinchiuso per mesi, nonostante fosse già malato di Parkinson e con la pandemia di COVID-19 in atto, fino alla sua morte in carcere a luglio 2021.

Entrambi hanno lottato per una società più giusta e hanno pagato con la vita la scelta di stare dalla parte delle classi subalterne, di credere in un futuro di giustizia sociale per tutte e tutti. Ma se è stata necessaria la loro morte, vuol dire che Modi e il suo partito hanno paura di pensatori liberi come loro, disposti a mettere il cuore e la mente al servizio di tutti gli oppressi.

Raccogliendo la loro eredità, tocca ora a noi continuare a batterci per una società più giusta.

1 A febbraio e a luglio 2024 l’ONU ha pubblicato alcuni documenti in cui sollevava dubbi sulla legittimità dell’applicazione delle leggi antiterrorismo per reprimere l’attivismo per i diritti umani in India, soprattutto nello Stato del Kashmir e nella regione del Bastar.

https://documents.un.org/doc/undoc/gen/g24/033/44/pdf/g2403344.pdf

https://www.fidh.org/en/region/asia/india/india-un-human-rights-committee-calls-for-protection-of-human-rights

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