Guardando alle conseguenze della caduta di Assad e della rapidissima conquista di Damasco da parte delle milizie jihadiste filo-turche (e non solo filo-turche), è evidente che a trarne vantaggio saranno soprattutto Israele, Turchia, Stati Uniti e le petromonarchie del Golfo.
Le organizzazioni curde continuano a oscillare tra alleanze spregiudicate nella speranza – o illusione – di guadagnare qualcosa di più di quello che stanno perdendo.
A perderne saranno sicuramente le organizzazioni palestinesi, Hezbollah, Iran, in pratica quello che insieme al movimento Ansarallah in Yemen si definisce “Asse della Resistenza”. Adesso i corridoi di rifornimento terrestri dall’Iran verso il Libano attraverso la Siria sono interrotti.
A vedere indebolita la sua presenza in Medio Oriente potrebbe essere anche la Russia, se non riuscirà a manovrare bene le sue relazioni con la Turchia. Gli jihadisti a Damasco hanno attaccato e saccheggiato l’ambasciata iraniana, mentre al momento le basi militari russe non sono state attaccate.
Il giornale statunitense Politico sottolinea come “la rapidità fulminea e la facilità dell’offensiva e lo scioglimento delle forze governative sollevano interrogativi, così come il fallimento degli alleati di Assad, Russia e Iran, nel fare molto per distruggere i ribelli e salvarlo. Le domande includono se ci sia stato un coordinamento dei ribelli con elementi all’interno del regime di Assad”.
Ad esempio il primo ministro siriano, Mohammad Ghazi al-Jalali, ha detto in un videomessaggio pubblicato online di essere rimasto a casa e di essere pronto a cooperare con il trasferimento del potere a “qualsiasi leadership scelta dal popolo siriano”.
Questo almeno è quanto è intellegibile da ciò che abbiamo visto finora. Quello che vedremo in futuro nella Siria, più divisa e contesa di prima, è ancora nebuloso, soprattutto perché gli interessi in campo mutano rapidamente di interlocuzione e le alleanze continuano ad essere a geometria variabile.
Difficile mettersi nei panni dei milioni di profughi siriani fuggiti da teatri di guerra così mutevoli in questi anni. Quale zona potranno ritenere sicura in un paese dai confini interni così labili e mutevoli?
L’”Occidente collettivo” – dagli Usa a Israele passando per la Ue – festeggia la caduta del governo di Assad in Siria e la presa di Damasco da parte delle milizie jihadiste ma, avverte il quotidiano La Stampa, se “la caduta di Bashar Assad non è una brutta notizia, non è ancora una buona notizia”. Se lo sarà o meno dipende da due fattori. Innanzitutto, dagli sviluppi a Damasco. “Hayat Tahir al-Sham (Hts), il gruppo che ha preso la capitale, ha radici in al-Qaeda, pur essendosene dissociata, ed è tuttora designata come movimento terrorista”, scrive il quotidiano.
L’esercito israeliano ha intanto già preso il controllo di un avamposto sul Monte Hermon sulle alture Golan dopo che l’esercito siriano si è ritirato dalle sue posizioni nella zona cuscinetto. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che l’accordo sul disimpegno delle forze con la Siria nelle alture del Golan, raggiunto poco dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973, ha perso la sua forza, giustificando la sua posizione con il fatto che durante il cambio di potere a Damasco, l’esercito siriano ha lasciato le sue posizioni sulle alture del Golan.
Netanyahu ha chiarito che già dal giorno prima aveva ordinato all’IDF di occupare la zona di demarcazione e le posizioni che la controllavano. Israele ha anche bombardato alcuni postazioni nel sud della Siria, ufficialmente per impedire che le milizie jihadiste si impossessassero delle armi contenute nei magazzini.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito la caduta di potere di Bashar al-Assad in Siria un “risultato diretto” degli attacchi delle forze armate israeliane contro i suoi alleati chiave nella regione: Hezbollah libanese e l’Iran. Ha anche descritto il cambio di potere a Damasco come una nuova e molto importante opportunità per Tel Aviv.
“Ora Netanyahu e il suo governo vedono una rara opportunità per un riallineamento globale del Medio Oriente. Resistendo alle richieste di una tregua, Netanyahu – con un potente stimolo dal suo fianco destro – si sta impegnando a raddoppiare la sua ricerca della “vittoria totale”, per quanto tempo ci vorrà – scriveva pochi giorni prima della caduta di Damasco la rivista statunitense Foreign Affairs.
“Oltre a continuare la guerra di Gaza e a gettare le basi per una prolungata presenza di sicurezza israeliana nella parte settentrionale della Striscia di Gaza, questa narrazione comporta l’imposizione di un nuovo ordine al Libano; neutralizzare i delegati dell’Iran in Iraq, Siria e Yemen; e, infine, eliminare la minaccia nucleare della Repubblica islamica”.
La Turchia ha segnato un grosso punto a suo favore nella sfida con la Russia per l’influenza nel Mediterraneo orientale; l’altro fronte di contrapposizione fra i due si gioca in Libia, dove Ankara sostiene il governo di Tripoli e la Russia quello di Tobruk del gen. Haftar. Da non dimenticare poi il braccio di ferro sul Nagorno Karaback per ora vinto dall’Azerbaijan alleato della Turchia… e in ottimi rapporti con Israele.
Ma per Erdogan c’è una grande incognita: la paura che i curdi siriani possano stringere un accordo con qualsiasi nuovo governo centrale a Damasco per ottenere uno status autonomo, proprio come hanno fatto i curdi iracheni dopo la guerra in Iraq. Se venisse fuori un accordo tra il leader jihadista Al Jolani, il conquistatore di Damasco, e i curdi, per Erdogan le aspirazioni di dominazione sulla Siria sarebbero decisamente ridimensionate e sulla “nuova Siria” la presa degli Stati Uniti sarebbe ancora più forte.
Le formazioni curde delle Forze democratiche siriane (SDF) hanno dichiarato di continuare a respingere gli attacchi delle forze filo-turche su Manbij e i suoi dintorni.
In precedenza, l’agenzia statale turca Anadolu, citando fonti delle agenzie di sicurezza, ha riferito che l’esercito nazionale siriano di opposizione, sostenuto dalla Turchia, si sta muovendo verso Manbij nella provincia di Aleppo e controlla già l’80% dell’area a discapito delle milizie curde.
Gli interrogativi sulla offensiva-lampo delle milizie jihadiste in Siria continuano a superare le certezze, ma tra queste indubbiamente c’era la debolezza interna del potere di Assad, ripetutamente colpito e umiliato dai bombardamenti israeliani in tutti questi mesi senza mai reagire adeguatamente, e indebolito dai sopravvenuti impegni dei suoi alleati – Russia, Iran, Hezbollah – sui fronti aperti dalla guerra senza limiti scatenatasi negli ultimi tre anni.
La caduta di Damasco in mano agli jihadisti è una spinta in più verso la guerra, non il suo contrario, magari attraverso la strategia del caos – tanto cara agli USA – e non sempre e non solo tramite un conflitto diretto e convenzionale.
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Pasquale
Creare disordine per istituire il nuovo ordine della massomafia mondiale.