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Germania. Processo a Daniela Klette: La caccia

Il 27 febbraio 2024 è stata arrestata a Berlino Daniela Klette, da più di trent’anni era ricercata per rapina e tentato omicidio. Klette, 67 anni, faceva parte della RAF (Rote Armee Fraktion, Frazione dell’Armata Rossa), scioltosi nel 1998 in seguito ad un “accordo politico” con il governo tedesco secondo cui la cessazione dell’attività armata era la contropartita per la liberazione dei prigionieri politici.

Quell’accordo informale, però, non prevedeva nulla per quanto riguardava i militanti rimasti liberi. Che furono così obbligati ad “arrangiarsi” per sopravvivere comunque da latitanti.

Oltre al suo coinvolgimento nella RAF, è accusata di aver compiuto numerose rapine a mano armata fra il 1999 e il 2016 insieme a due presunti ex membri della RAF, Burkhard Garweg ed Ernst-Volker Staub, tuttora latitanti. Nei giorni scorsi si è aperto il processo contro Daniela Klette, in un clima molto diverso da quello in cui avvenne lo scioglimento del gruppo.

Questo articolo di Karl-Heinz Dellwo – che per i compagni più anziani non ha bisogno di presentazioni e certamente conosce bene la storia della Raf, nonché i giudici e le carceri di Germania – descrive con attenzione e la necessaria ironia il clima parossistico che circonda “l’evento”.

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Cold Case RAF? Il processo a Daniela Klette

È considerata, come ebbe a dire la procuratrice capo Gresel-Appelbaum nel 2015 durante la consegna di un attestato di riconoscimento ministeriale, “un colpo di fortuna per la procura di Verden“. È anche nota come investigatrice di cold case.

Oggi siede, insieme alla vice-procuratrice capo Katharina Sprave, nell’aula bunker dell’Alta Corte di Celle, nel ruolo di pubblica accusa contro Daniela Klette. È descritta come una donna passionale, e dai resoconti si sa che, quando irrompe in un appartamento durante una perquisizione, in genere alla ricerca di Burkhard Garweg, a volte esplode già sulla soglia con un: «Dov’è?». Puntando a sopraffare legalmente l’interlocutore.

Durante gli interrogatori, a volte si sporge bruscamente verso l’imputato, superando ogni limite di distanza, e gli sibila un «Lei ne sa di più!» quasi fisicamente. L’obiettivo è smantellare le difese dell’altro, renderlo inerme.

Daniela Klette

Anche nel processo, sembra essere la parte più attiva rispetto a Daniela Klette. Legge infatti undici dei tredici capi d’accusa con voce monotona, in piedi, com’è d’obbligo per l’accusa, mentre gli avvocati siedono durante le loro controdeduzioni. Capelli neri, toga nera, nella luce artificiale di un’aula senza finestre dove ogni volto sembra grigio, ricorda una figura di un film noir, emanando una certa durezza e disillusione — perché il male, si sa, non muore mai.

Eppure, nonostante l’immagine quasi da corvo mentre picchietta con voce chiara le prove, come beccando il guscio duro di una noce da rompere, c’è un dettaglio che contrasta: le scarpe rosse che indossa il primo e il secondo giorno del processo. Nero e rosso, che abbinamento!

Chissà se sa che sta sfoggiando i colori preferiti degli anarchici. Potere e anarchia non sono così distanti, se si pensa alla frase del Duca di Blangis in Salò di Pasolini, dove rivendica che i veri anarchici sono loro, «ma solo quando il potere dello Stato è nelle nostre mani. Solo il potere rende possibile l’anarchia». La dottoressa Marquardt ha lo Stato dalla sua parte, e lo incarna.

Nei processi alla RAF, la giustizia politica aveva mano libera: esclusione di avvocati, intercettazioni della difesa, accordi segreti con le corti d’appello, rifiuto sistematico di ogni richiesta contestuale della difesa. Un vago sentore di anarchia pervade anche l’atto d’accusa di Verden, come l’avvocato Ulrich von Klinggräff ha evidenziato nel suo ricorso di archiviazione.

Si mischia tutto come conviene. Mentre pubblicamente la Marquardt sostiene che si tratta solo di rapine, dove le prove scarseggiano, riempie i vuoti con l’ideologia: «Era tipico della RAF». L’intero atto d’accusa è intriso di riferimenti a una presunta “mentalità RAF” — già allora un costrutto fittizio — dove tutti sparano senza rimorso e vivono in uno stato di permanente disposizione all’omicidio. Questo per contrastare un’imputata che, come noto, è stata arrestata senza resistenza nonostante avesse armi in casa.

L’obiettivo è chiaro: attribuire a Daniela Klette intenzioni omicide e minacciare l’ergastolo.

Il secondo giorno, la Marquardt si giustifica dicendo di aver offerto all’imputata la possibilità di parlare per raccogliere prove a suo favore. Come se non esistesse il diritto al silenzio. La minaccia di «intenzioni omicide» è un tentativo di pressione per estorcere confessioni, spingendo a un patteggiamento: dichiarazioni in cambio di sconti di pena.

Questo meccanismo si è visto con altri ex membri della RAF rifugiatisi nella ex DDR: dopo essersi accusati a vicenda, furono rilasciati in tempi brevi. Lo Stato ha sempre bisogno del tradimento come Viagra politico — un tradimento che è sempre auto-tradimento. In Germania, giuramenti e valute cambiano: dal marco al marco occidentale, all’euro. Chi si ricorda del valore della carta straccia?

Non si tratta di «verità», ma di conflitto tra sovranità. Nella lotta tra RAF e Stato, il punto era su quali basi fondare l’esistenza collettiva. Per lo Stato, conta solo il tradimento: nessuno deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Chi lo fa, attacca — ed è già terrorismo. Chi tradisce, invece, è annientato e quindi innocuo.

Il potere, come insegnava Foucault, funziona con disciplina e coercizione alla confessione. Come in 1984, dove Winston e Julia si tradiscono, e lui realizza: «Avevano tradito se stessi. Lo scopo della tortura era proprio questo: non morire, ma spezzarsi prima».

Questa è la battaglia della dottoressa Marquardt: ridurre l’imputato a nulla, mentre lo Stato trionfa. Una dipendenza mai sazia. Lina E. ha preso 5 anni per attacchi a neonazisti. Ai tempi di Weimar, per 22 omicidi di sinistra: 10 esecuzioni, pena media 15 anni. Per 354 omicidi di destra: un ergastolo, pena media 4 mesi. E i giudici nazisti dopo il ’45? Nessuno condannato. La vedova di Roland Freisler ha ricevuto la pensione, mentre la Corte Federale ha negato quella ai membri del Politbüro della DDR per la loro detenzione nei lager (durante il regime nazista, ndr).

Ironico che la giudice del BGH, dottoressa Dietsch, giustifichi il divieto di visita di Gabriele Rollnik a Daniela Klette dicendo che «i crimini del movimento 2 giugno, seppure decenni fa, erano di tale gravità da permettere di dedurne l’attuale mentalità» (sentenza BGH, 20/12/2024). Chissà se applicherebbe lo stesso criterio alla magistratura…

L’ultima azione RAF fu nel 1993: la distruzione del carcere di Weiterstadt, attentato in cui si assicurarono che nessuno rimanesse ferito. Si sciolsero nel 1998, ma non il rapporto mediatico e statale. Dopo l’arresto di Klette nel febbraio 2024, i media hanno banchettato: finalmente il nemico amato — anche se solo una proiezione — era tornato. Lo Spiegel titolò senza prove che Christian Klar aveva incontrato Klette. Puro calcolo aritmetico: Klette + Klar + RAF = terrorismo.

L’avvocato Lukas Theune ha chiesto la sospensione del processo dopo che alla difesa sono stati consegnati, 16 ore prima dell’inizio, due dischi da 12 e 6 terabyte di materiale — una mole ingestibile. La polizia ha usato il software Pathfinder di Cellebrite (fornitore anche di dittature) per organizzare i dati; la difesa no. La richiesta di accesso al programma è stata respinta il 1° aprile. Ora devono cercare degli aghi in un pagliaio.

Anche la richiesta di archiviazione è stata rigettata. La Corte, cortese ma determinata, assicura di essere imparziale e di aver già escluso i riferimenti alla RAF come irrilevanti. Vedremo.

Cold case per alcuni è il non plus ultra dell’investigazione; per altri, un peso. Risolvere ciò che altri non hanno fatto è una sfida. Ma il più grande cold case del secolo scorso — la Germania post-fascista con i suoi criminali nazisti impuniti, molti nella polizia e nella magistratura — la Marquardt l’ha ignorato. Da lì nacque la RAF, e dopo la sua fine, la necessità dei ricercati di trovare risorse per sopravvivere. Consegnarsi a quella giustizia politica era impensabile.

Si possono criticare i metodi di sopravvivenza, persino giudicarli male, ma negare ogni moralità politica ai coinvolti e demonizzarli è solo bassezza. Questo è il cuore dell’atto d’accusa di Verden.

E in mezzo a tutto questo, c’è un’imputata che sembra serena, emanando quella calma necessaria quando i cacciatori credono di aver vinto.

* da Aktuell

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