Ieri l’inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ovviamente, al centro della discussione c’era la situazione di Gaza, e in generale la continuazione delle operazioni di pulizia etnica contro il popolo palestinese.
L’uomo di Trump sarebbe arrivato a Gerusalemme per rilanciare l’opzione di una tregua, dopo che un paio di settimane fa, per l’ennesima volta, le richieste di Hamas sono state rifiutate dai vertici di Tel Aviv. O almeno era questo che le testate giornalistiche dicevano fino a ieri sera, quando una fonte israeliana di alto livello avrebbe rivelato tutt’altro al sito web Ynet.
“Si sta formando un’intesa tra Israele e gli Stati Uniti secondo cui, alla luce del rifiuto di Hamas, bisogna passare da un piano per il rilascio di alcuni ostaggi a un piano per la liberazione di tutti i rapiti, il disarmo di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia di Gaza“, avrebbe detto questa fonte. “Non ci saranno più accordi parziali“, avrebbe aggiunto.
La fonte ha espresso poi anche la propria opinione sul pensiero di Witkoff: “non c’è nessuno con cui parlare dall’altra parte. Anche Witkoff ha compreso questa realtà“. Se tali informazioni venissero confermate, significherebbero che i sionisti sono pronti a passare alla fase definitiva della pulizia etnica, occupando definitivamente Gaza.
Del resto, la Knesset ha già votato l’annessione della Cisgiordania, mentre il Movimento Nachala, l’organizzazione di coloni guidata dalla famigerata Daniella Weiss, ha da poco svolto quello che ha chiamato un “pattugliamento” ai confini settentrionali di Gaza. Su X, il Movimento ha scritto chiaro e tondo la finalità: “il confine nord è stato conquistato e ripulito: ora è il momento di stabilirsi“.
Per Netanyahu significherebbe assicurarsi il sostegno del mondo politico dei coloni, unica stampella a un governo altrimenti in grave difficoltà, senza considerare il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale. Ieri, davanti all’ufficio del primo ministro, i parenti degli ostaggi hanno manifestato di nuovo per un accordo finalizzato al loro rilascio.
Intanto, alcune dichiarazioni e iniziative di Trump sembrano confermare che Tel Aviv è pronta davvero a imboccare questa strada, col sostegno di Washington. The Donald, non molto prima dell’incontro tra Witkoff e Netanyahu, ha scritto sul social Truth che “il modo più rapido per porre fine alla crisi umanitaria a Gaza è che Hamas SI ARRENDA E LIBERI GLI OSTAGGI!!!“
Il tycoon ha anche negato i visti stelle-e-strisce ai funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese, accusata di voler ‘internazionalizzare’ la situazione. Detto dal principale sostenitore delle IDF, che deve fare i conti con i delicati equilibri del Medio Oriente mentre Israele attacca di nuovo il Libano, risulta una critica al limite del ridicolo.
Allo stesso tempo, bisogna dire che Trump potrebbe non essere così propenso a dare il via libera alla fase finale del genocidio, almeno in queste condizioni politiche. A inizio settimana, in contrasto con le dichiarazioni di Netanyahu, aveva detto che era evidente che ci fosse una grave situazione di fame a Gaza (dove si dovrebbe recare oggi Witkoff, proprio per controllare la distribuzione degli aiuti).
La politica di guerra totale di Tel Aviv rappresenta un problema ingestibile per Washington, che negli ultimi mesi non ha nascosto a volte la frustrazione di un ‘alleato’ che fa un po’ quel che gli pare, costringendo i padrini statunitensi a riparare poi i danni. Ma ormai, il sostegno a Israele sta diventando un problema anche di politica interna.
Un recente sondaggio di Gallup, effettuato tra il 7 e il 21 luglio, ha mostrato che solo il 32% degli statunitensi approva ormai le azioni militari israeliane. Si tratta di un crollo di ben 10 punti percentuali rispetto ai valori registrati nel settembre 2024 e la percentuale più bassa dal novembre 2023.
Il Financial Times riporta che lo stesso Trump abbia detto a un ebreo sionista che ha finanziato la sua campagna elettorale che “il mio popolo sta cominciando a odiare Israele“. L’informazione è arrivata al quotidiano britannico attraverso un esperto di Medio Oriente con contatti interni all’amministrazione USA, che è rimasto però anonimo.
Che persino nella base sociale che sostiene Trump si stia cominciando a storcere il naso – probabilmente perché Netanyahu impone la propria politica estera alla Casa Bianca, e non viceversa – lo dimostra anche il fatto che la deputata trumpiana Taylor Greene abbia parlato, lo scorso 29 luglio, di “genocidio“, proponendo anche di bloccare gli aiuti a Israele.
Sullo sfondo, c’è anche il modo in cui il resto dell’Occidente – ormai piuttosto a pezzi, bisogna dirlo – sta usando la crisi palestinese per attaccare Trump e assumere una posizione autonoma nella diplomazia internazionale. Dopo Francia e Regno Unito, anche il Canada ha detto di voler riconoscere lo Stato di Palestina, e il presidente statunitense si affrettato a minacciare ripercussioni sugli accordi commerciali.
Amir Ohana, speaker della Knesset, ha risposto duramente a Parigi e Londra: “se desiderate quello che chiamate uno Stato palestinese, costruitelo a Londra, a Parigi, nei vostri paesi“. Ora, però, persino l’altro alleato di ferro di Tel Aviv, la Germania, sembra stia valutando il riconoscimento della Palestina.
A Berlino ha risposto direttamente Ben-Gvir, in maniera ancora più netta: “80 anni dopo l’Olocausto, la Germania torna a sostenere il nazismo“. Considerato quanto il tema sia delicato tra i teutonici (per la classe dirigente solo di facciata, ma tant’è), è facile immaginare che la reazione sarà tutt’altro che accondiscendente.
Bisognerà tenere alta l’attenzione su quale crinale penderanno le azioni di Israele. Il passo definitivo verso il completamente del genocidio è stato fatto, ma a livello internazionale la situazione si fa più articolata. Non che venga messo in discussione il regime suprematista di apartheid, ma ci sono delle faglie che le mobilitazioni continue di sostegno alla causa palestinese possono e devono continuare ad allargare.
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