La diffusione del video dell’ostaggio israeliano Evyatar David da parte di Hamas ha prodotto l’effetto previsto: indignazione mirata, rilanciata dai media occidentali con linguaggio emotivo e selettivo. Il corpo visibilmente debilitato dell’uomo, ripreso in un ambiente sotterraneo accanto a un calendario di pasti scarni, è diventato materiale simbolico, trattato come prova evidente di brutalità.
Ma fuori dal quadro, resta una realtà ben più ampia: quella di un’intera popolazione nelle stesse condizioni, o peggiori.
Un ostaggio visibilmente denutrito in una Gaza assediata non è un’eccezione. È l’immagine coerente di un contesto interamente privato dei mezzi di sopravvivenza. Quando due milioni di persone vivono senza accesso stabile a cibo, acqua, medicinali ed energia, chiedersi perché un prigioniero sia magro significa ignorare il funzionamento dell’assedio.
In una realtà in cui anche la popolazione civile fatica a sopravvivere, il deterioramento fisico di un detenuto è una conseguenza prevedibile. Il suo stato non è un’anomalia: è il riflesso della condizione generale in cui versa chiunque viva sotto blocco. Non è la conseguenza di un trattamento punitivo, ma il risultato di una realtà collettiva devastata, in cui nemmeno chi lo detiene ha accesso a risorse sufficienti per vivere normalmente.
La debilitazione di quel prigioniero non è il risultato di una scelta interna, ma della realtà esterna imposta dall’assedio. A Gaza, oggi, non esiste la possibilità concreta di garantire un’alimentazione adeguata a nessuno: né ai civili, né ai malati, né ai detenuti. La privazione è generalizzata. Se il cibo non entra, non può essere distribuito. La condizione dell’ostaggio è dunque coerente con quella del contesto in cui è trattenuto.
Eppure, il racconto che circola non prende in esame il contesto. L’ostaggio riceve attenzione mediatica internazionale; i corpi palestinesi, stremati o senza vita, restano fuori campo. Non si tratta di una svista, ma di una precisa selezione narrativa. Si decide chi è una vittima spendibile nel discorso pubblico e chi può essere escluso senza effetti collaterali.
In questa costruzione, il deterioramento fisico non è più un fatto, ma una leva. Quando è individuale, viene amplificato. Quando è collettivo, viene ignorato. La questione non è più solo umanitaria: è politica. Privare una popolazione delle condizioni minime di vita non è un effetto secondario, ma una tecnica deliberata di dominio. Non si colpiscono solo obiettivi militari. Si rende impossibile la sopravvivenza.
L’informazione occidentale ha un ruolo attivo in questo processo. Non si limita a documentare: organizza la visibilità secondo una gerarchia funzionale. Trasforma il singolo corpo israeliano in elemento drammatico, mentre rimuove la quotidianità del danno sistemico inflitto a un’intera comunità. È così che l’informazione smette di essere osservazione e diventa partecipazione.
Basta negare tutto ciò che rende la vita possibile: cibo, cure, riparo, dignità. Basta farlo mentre il mondo guarda altrove, o finge di guardare solo un volto alla volta.

* da Facebook – via Sergio Scorza
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Anna M.
Come al solito il vomitevole doppio standard. Se l’israeliano è denutrito è solo colpa del suo paese, che degli ostaggi chiaramente se ne frega. Piuttosto io metterei in risalto l’umanità dei palestinesi che si privano del niente che hanno per nutrire un nemico. Potrebbere lasciarlo morir di fame anche lui, come tanti altri.
Mauro
…I video dei prigionieri pelle ed ossa è stato un boomerang propagandistico…o no,?
Redazione Contropiano
dipende dal “target” di riferimento…