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Libano. Disarmo Hezbollah: lo scontro cova, ma si prende tempo

Venerdì 5 settembre, l’esercito libanese ha presentato al Consiglio dei Ministri il suo piano di disarmo delle milizie non statali. Tale piano è chiaramente diretto contro Hezbollah ed è frutto delle pressioni saudite e statunitensi rivolte contro la Resistenza, intensificatesi dopo il cessate il fuoco dello scorso novembre con Israele e la caduta del Baath in Siria.

Tale cessate il fuoco non è mai stato rispettato dal regime sionista, che ancora occupa cinque punti in territorio libanese e non ha mai smesso i bombardamenti, mentre è stato rispettato da Hezbollah, che si è ritirato con le sue milizie al nord del fiume Litani.

Nelle settimane scorse, gli USA hanno più volte subordinato la presentazione di una road map chiara e temporalmente scadenzata per il disarmo di Hezbollah alla fornitura aiuti economici nei confronti del paese, ma non hanno mai garantito in maniera chiara che ciò avrebbe comportato il ritiro definitivo di Israele e la cessazione dei bombardamenti.

Come “prova generale” verso il disarmo Hezbollah, intanto, si sta procedendo al disarmo dei campi palestinesi, in una mossa concordata con l’Autorità Nazionale Palestinese, nella velleitaria speranza di dimostrarsi allineata agli sforzi statunitensi di disarmo generale della Resistenza in tutta la regione.

Non sono stati ancora forniti dettagli del piano presentato dall’esercito. Si sa solo che i cinque ministri sciiti del blocco Hezbollah-Amal non hanno partecipatopo al Consiglio dei Ministri e che esso non presenta scadenze temporali, come richiesto dagli USA.

Infatti, le reazioni di Hezbollah, che nelle settimane scorse era arrivato addirittura ad evocare la guerra civile, non sono negative. Il Vicepresidente del Consiglio Politico Mahmud Comati ha commentato il piano dell’esercito come ”un’opportunità per tornare alla saggezza e alla ragione, impedendo così al Paese di precipitare nell’ignoto” ed ha poi affermato che è tutto sospeso finché il nemico non si sarà ritirato completamente dal paese. “Il Piano dell’esercito preserva la pace civile”, gli fa eco il Presidente del Parlamento Nabih Berri di Amal.

Ovviamente anche il Governo ha commentato positivamente, affermando che rispetto al disarmo non si torna indietro e che si tratta di un momento cruciale. Secondo un alto ufficilae, “L’obiettivo è che la consegna delle armi avvenga entro la fine dell’anno, o che inizi almeno entro la fine dell’anno”. Certo è che scadenze prefissate non ce ne sono e bisogna capire come reagiranno USA e Arabia Saudita a quello che, al contrario di come si potrebbe pensare, appare un punto a favore di Hezbollah.

In definitiva, le forze in campo continuano con la tattica del prendere tempo. L’esecutivo libanese non ha la forza di effettuare alcun disarmo, se non, come detto, quello dei campi palestinesi in accordo con l’ANP, mentre l’esercito è nettamente più debole delle milizie di Hezbollah e non vuole scontrarvisi.

La loro speranza è che, stretta fra le pressioni internazionali e l’isolamento regionale, dato dalla caduta del regime baathista e dallo scarso supporto del governo “riformista” dell’Iran, la Resistenza sciita scelga spontaneamente la via del disarmo; in cambio di garanzie che, però, nessuno è in grado di dare. Si studiano possibili compromessi, tipo l’arruolamento di parte delle milizie sciite nell’esercito regolare; ma ogni discorso di questo tipo, allo stato, appare prematuro.

Anche Hezbollah prende tempo, alternando dichiarazioni incendiarie a qualche forma di apertura, subordinata al ritiro definitivo dell’esercito sionista dal paese. Al momento regge l’asse con l’altro partito sciita Amal, ma non c’è garanzia che quest’ultimo non ceda prima o poi alle pressioni esterne, allineandosi alle richieste di disarmo pur di scongiurare una guerra civile o un intervento esterno.

Ciò che sembra incrollabile, nonostante i sacrifici e le privazioni, è il sostegno della base sociale del sud sciita e della Resistenza in generale, che freme e sarebbe pronta a scendere in piazza in massa contro il disarmo; ma viene tenuta a freno dalla tattica prudente dei dirigenti, che, al momento, ancora non lasciano nemmeno l’esecutivo, nonostante l’aperta ostilità.

Proponiamo un editoriale di Al-Akhbar, quotidiano laico e progressista, sostenitore della Resistenza, che bene ne esprime lo stato d’animo ed invita Hezbollah a liberarsi dalle pastoie dei compromessi infiniti con le forze politiche filo imperialiste, ritirando i propri ministri dal governo.

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Il Libano non ha più bisogno di questo governo

Il presidente libanese Joseph Aoun sapeva che la sua elezioni era il frutto di un’imposizione esterna in un momento di rimpasto regionale. Era anche ben consapevole che mantenere Najib Mikati avrebbe placato le preoccupazioni della classe dirigente riguardo all’avere un presidente loro imposto dall’esterno. Ma quando Nawaf Salam è stato nominato primo ministro senza alcuna consultazione, il quadro divenne molto chiaro per Aoun: tutte le regole del gioco vengono ora dettate dall’estero.

Dopo la guerra di Israele contro il Libano, il cessate il fuoco ha messo in luce lo squilibrio nell’ordine politico interno del Paese, che si estendeva alla resistenza stessa. Hezbollah si rese presto conto che l’accordo non era all’altezza dei sacrifici compiuti per fronteggiare l’aggressione. Eppure, la strada scelta era quella della ripresa e del recupero di terreno dopo una battaglia estenuante.

E nonostante le infinite aggressioni israeliane che sono costate a Hezbollah ulteriori martiri e distruzioni, il partito ha rispettato pienamente il cessate il fuoco. Ma questo non è stato il comportamento di una forza sconfitta. La resistenza non si è inchinata né ha accennato ad arrendersi, e il nemico ha compreso subito questa idea.

Allo scadere del termine di sessanta giorni, Israele concluse che il tentativo di evitare una ripresa di Hezbollah non poteva essere sostenuto solo da Tel Aviv. Anche Washington, Riyadh e i loro alleati libanesi dovevano fare la loro parte. Iniziò così la campagna interna sotto il titolo di “monopolio di Stato sulle armi“, uno slogan il cui unico vero obiettivo era il disarmo della resistenza.

Israele, già diffidente e scosso dopo “diluvio di al-Aqsa”, ha visto terreno fertile per gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e i loro alleati locali per fare pressione su Hezbollah. L’obiettivo principale era quello di assediare il partito e costringerlo a concessioni simili a quelle fatte in materia politica e governativa.

La moderazione di Hezbollah, sia sul fronte con Israele che negli affari interni, è stata erroneamente interpretata come debolezza. Questa percezione ha innescato un nuovo progetto politico volto a rompere l’alleanza del partito con il Presidente Nabih Berri e, in definitiva, a privare la resistenza delle sue armi.

Ma Hezbollah aveva semplicemente cercato di evitare conflitti interni. Aveva abbandonato la retorica delle minacce verso Israele, ammorbidito i toni con le forze locali e agito con cautela all’interno del fragile assetto politico del Libano. Non aveva alcuna intenzione di innescare alcun conflitto.

Ma quando Aoun e Salam si si sono schierati apertamente con i piani statunitensi, Hezbollah è stato costretto a cambiare rotta. La dichiarazione dello sceicco Naim Qassem, secondo cui la resistenza non avrebbe mai ceduto le armi e fosse pronta a una battaglia “simile a quella di Karbala“, se necessario, ha scosso drammaticamente il panorama politico.

Persino Berri si è reso conto che il compromesso non era mai stato l’obiettivo della controparte. Tutto ciò che stava accadendo era una cieca obbedienza agli ordini stranieri: colpire la resistenza, anche a rischio di una guerra civile.

L’atteggiamento apertamente ostile della delegazione statunitense durante la sua ultima visita, inclusa la schietta dichiarazione del senatore Lindsey Graham secondo cui Washington non avrebbe chiesto nulla a Israele prima che il governo libanese iniziasse il disarmo, non ha fatto che rafforzare questo scenario.

Berri ha risposto con fermezza, affermando che qualsiasi tentativo di contrapporre l’esercito alla resistenza avrebbe devastato l’unità nazionale e la pace civile.

Oggi, il Libano si trova a un altro bivio cruciale. Aoun e Salam stanno ancora portando avanti questo progetto, anche dopo che Israele stesso ha rinnegato il documento statunitense e Barrack ha apertamente ammesso che la sua proposta non aveva l’approvazione israeliana.

Il significato non potrebbe essere più chiaro: Aoun e Salam stanno dimostrando ancora una volta che la loro preoccupazione non è il Libano, ma la soddisfazione di coloro che li hanno messi al potere. La loro priorità è compiacere Washington e Riad. Convinti che la resistenza non abbia altra scelta che disarmarsi, si aggrappano a un unico ritornello: quel rifiuto trascinerà il Libano in una nuova guerra e porterà la comunità sciita alla rovina.

Con funzionari di questo tipo, il dialogo è inutile. La vera domanda ora è se permangano basi per una partnership, con loro o con il più ampio blocco politico allineato al piano USA-Arabia Saudita-Israele di smantellare la resistenza e prendere il controllo degli apparati politici e di sicurezza del Libano.

Pertanto, rimanere parte del governo non è più solo discutibile, ma piuttosto insostenibile. Il crollo delle istituzioni statali come strumento per affrontare le crisi del paese lascia la resistenza e i suoi alleati liberi dai vincoli di questo cosiddetto accordo.

Per quanto riguarda il fronte con Israele, la risposta alla domanda se la guerra tornerà non attenderà sicuramente le riunioni del governo, ma sarà il risultato dell’evolversi della realtà in Palestina e in tutta la regione.

 * Ibrahim Al-Amine https://en.al-akhbar.com/news/lebanon-no-longer-needs-this-government

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