Si è svolto ieri, 15 settembre, il tanto atteso vertice dei paesi musulmani a Doha, chiamato dopo il criminale attacco israeliano alla delegazione di Hamas presente in Qatar, paese che funge da mediatore tra il partito palestinese e le autorità statunitensi e di Tel Aviv. La notizia dei tank israeliani che entrano a Gaza City rende già evidentemente obsoleto i punti lì discussi.
Del resto, da più parti si era sentito che il governo Netanyahu attendeva solo il lasciapassare stelle-e-strisce e la certezza che a Doha non avvenisse nulla di rivoluzionario. È evidente che sia andata proprio così: quello che emerge dal summit sono le contraddizioni insite nelle dichiarazioni finali e l’impossibilità di trovare un accordo su misure concrete.
Di certo, non è di poco conto il fatto che nella capitale qatariota si siano riuniti i rappresentanti di ben 57 paesi: l’incontro, infatti, è stato in sostanza un vertice della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. A discutere insieme c’erano la Siria, i paesi degli accordi di Abramo, ma anche l’Iran, col presidente Pezeshkian che si è incontrato col principe saudita Mohammed bin Salman.
Di nuovo, non occasioni semplicemente formali, che mostrano un panorama diplomatico in movimento: il fatto che Riyad e Teheran si continuino a parlare, dopo la riapertura dei rapporti un paio di anni fa, non è un elemento da sottovalutare. Come, vedremo, non lo sono nemmeno quelle poche scelte con risvolti concreti presi a Doha.
Ma al di là delle dichiarazioni congiunte e dello sforzo a sedersi allo stesso tavolo, e forse qualche iniziativa da prendere presso le Nazioni Unite, il consesso ha mostrato plasticamente l’impossibilità del mondo islamico a trovare un’unità rispetto alla politica estera da tenere nei confronti di Israele e dei suoi progetti espansionistici nella regione.
In un certo senso, il vertice ha stabilito quello che in Italia varie forze politiche e sociali vanno ripetendo da mesi: Israele è un pericolo per l’umanità ed è il principale fattore di destabilizzazione regionale. Ma la chiamata iraniana fatta ai paesi islamici di rompere le relazioni con Tel Aviv e di porre un argine alle sue continue operazioni illegali di guerra non è stato accolto.
L’attacco a Doha è stato condannato, ed è chiaro che alcune misure di deterrenza e prevenzione verso ulteriori attacchi sono state messe in campo. Di questo si è discusso a un incontro dei ministri degli Esteri che ha preceduto il summit, e in questa direzione sembra si muoverà il Consiglio di difesa del Gulf Cooperation Council, organizzazione internazionale che riunisce i paesi del Golfo Persico.
Al punto 9 delle dichiarazioni congiunte finali viene ribadita la volontà di assumere una “visione condivisa per la sicurezza“, ma l’ipotesi di una vera e propria ‘NATO del Golfo’ è stata rimandata a prossime riunioni. Rimane il dubbio se ciò possa portare ad assumersi anche la responsabilità di abbattere caccia israeliani, nel caso tornassero a sorvolare il Qatar, ad esempio.
Le dichiarazioni pongono “enfasi sull’opporsi ai piani israeliani di imporre una nuova realtà regionale“, con un accenno ai sogni di una ‘Grande Israele’. Così come affermano “il destino comune dei paesi arabi e islamici“. Viene poi proposta la collaborazione tra i paesi presenti per promuovere la sospensione di Israele quale membro dell’ONU e l’implementazione dei mandati d’arresto dell’Aja.
Ma per quanto riguarda poi il fulcro di tutta la vicenda, cioè la questione palestinese, le dichiarazioni sono evidentemente contraddittorie. Viene sì ribadita la necessità di impedire l’annessione della Cisgiordania, di porre fine al genocidio a Gaza, di favorire il passaggio verso la soluzione a due stati (opzione a cui evidentemente nessuno crede più, ma che continua ad aleggiare nei consessi diplomatici).
Allo stesso tempo, però, i paesi a Doha hanno deciso di “supportare gli sforzi di mediazione di Qatar, Egitto e Stati Uniti“. Quanto questi sforzi vengano tenuti in considerazione dai sionisti lo ha dimostrato proprio il bombardamento del Qatar, mentre Washington non cela di sostenere la soluzione finale per Gaza, rendendola una riviera turistica.
Non si può ignorare che, mentre oltre 50 paesi islamici si riunivano a Doha, il Segretario di Stato USA Marco Rubio stringeva la mano a Netanyahu. Mentre Trump ha telefonato all’emiro qatariota per esprimere solidarietà (riguardo a un attacco di cui è stato confermato sapesse in anticipo), uno dei funzionari più importanti della Casa Bianca ribadiva il sostegno di Washington contro ogni riconoscimento dello stato di Palestina.
Rimane il nodo dell’annessione della Cisgiordania: gli Emirati Arabi Uniti avrebbero fatto sapere all’amministrazione Trump e al governo israeliano che questa operazione militare rischierebbe di far collassare gli Accordi di Abramo, e dunque renderebbe anche impossibile ampliarli, minando uno dei punti fermi dei risultati ottenuti dal tycoon alla guida degli USA.
L’analista di sicurezza Matthias Inbar, sul canale televisivo israeliano i24News, ha parlato di colloqui riservati tra statunitensi e israeliani per delineare un piano di esilio volontario per i dirigenti di Hamas verso Tunisi. Se l’IDF è arrivato a bombardare il Qatar per ucciderli, è facile dubitare della concretezza di tale ipotesi, per quanto possa essere davvero in discussione.
Erdogan ha parlato di una pressione economica da esercitare su Israele, con evidente riferimento all’imposizione di sanzioni e alla rottura degli accordi economici. Il Pakistan di una task force arabo-islamica per adottare misure effettive contro i piani espansionistici di Israele. Ma si tratta, per ora, di volontà singole. Il summit di Doha non ha raggiunto più di qualche condanna.
Che è comunque un elemento importante, per il dibattito all’Assemblea Generale dell’ONU e, soprattutto, per l’evidente contraccolpo che potrebbe risultare dall’annessione della Cisgiordania, almeno per gli Stati Uniti. Ma il genocidio continua a decine di vittime al giorno, mentre Tel Aviv continua a bombardare mezzo Medio Oriente, e ora ha invaso nuovamente Gaza City.
Le parole non bastano più, nemmeno per raggiungere i limitati obiettivi discussi dai paesi arabi e islamici.
Edit: è confermato anche dal giornale The Cradle il fatto che l’Iran espresso delle riserve sulle dichiarazioni finali, per quanto riguarda il riconoscimento di Israele e la promozione di una soluzione a due stati, ritenuta incapace di risolvere la questione palestinese. Al contrario, Teheran sostiene la creazione di un singolo stato democratico da creare attraverso un referendum di tutti coloro che vivono in Palestina.
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