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Crepe nell’alleanza tra sionisti cristiani e Israele

I. Introduzione: la frattura e l’alleanza

L’alleanza tra Israele e la destra americana si sta rompendo. Secondo Tikvah Ideas, un circolo di pensiero ebraico conservatore filo-israeliano, i luoghi comuni antisemiti stanno riemergendo all’interno della stessa coalizione che da tempo difende la Supremazia e il militarismo israeliani.

Non si tratta di provocazioni marginali. Sono narrazioni diffuse: rivendicazioni di doppia lealtà ebraica, scetticismo verso le alleanze ebraico-cristiane, accuse di manipolazione della politica estera statunitense da parte di Israele e persino revisionismo dell’Olocausto. L’impalcatura ideologica che un tempo definiva Israele una fortezza morale si sta rompendo. Il costo di questa frattura non sarà retorico. Sarà strategico.

Per comprendere la frattura, dobbiamo prima comprendere l’alleanza.

Per decenni, l’alleato internazionale più affidabile di Israele è stata la destra americana. Cristiani evangelici, esponenti dei media conservatori e legislatori Repubblicani hanno offerto un sostegno incrollabile: militare, diplomatico e culturale. Questa alleanza è stata inquadrata come teologica, strategica e morale: un baluardo contro il terrorismo, un adempimento della profezia biblica e una difesa della civiltà occidentale.

Ma al di sotto di questa alleanza si cela una contraddizione troppo profonda per essere ignorata. Il sostegno della destra americana a Israele non è mai stato radicato nel pluralismo ebraico o nella responsabilità storica. È un’alleanza blasfema: una convergenza di escatologia cristiana, militarismo nazionalista e convenienza geopolitica. Gli evangelici sostengono Israele non per proteggere la vita ebraica, ma per promuovere una narrazione teologica in cui il ritorno degli ebrei in Terra Santa precede la redenzione cristiana.

Come ha dichiarato il Pastore John Hagee, fondatore di Cristiani Uniti per Israele: “La venuta di Gesù Cristo è legata al ritorno degli ebrei in Israele“. Per molti evangelici, la sopravvivenza ebraica è strumentale, non sacra. Il loro sostegno a Israele non è una difesa della dignità ebraica, ma un terreno fertile per la profezia cristiana.

E Israele, a sua volta, sfrutta questa alleanza con precisione strategica. Accoglie con favore il sostegno evangelico, perché fornisce copertura politica, aiuti finanziari e isolamento ideologico. I funzionari israeliani partecipano ai vertici di Cristiani Uniti per Israele, riecheggiando il linguaggio del Sionista Cristiano e promuovendo politiche che Cancellano il dissenso ebraico e Criminalizzano l’esistenza palestinese.

L’alleanza non è un riconoscimento reciproco, ma una strumentalizzazione reciproca. Gli evangelici usano Israele per adempiere alla profezia; Israele usa gli evangelici per proteggere l’Apartheid. Il risultato è una coalizione che sacralizza la Supremazia, non la solidarietà.

E sotto la teologia si cela qualcosa di più antico e pericoloso: una logica di utilità Suprematista. L’abbraccio di Israele da parte dell’estrema destra americana non si fonda sulla solidarietà religiosa, ma su un’architettura di potere condivisa. La glorificazione della forza, il mito della purezza di civiltà, la strumentalizzazione della vita ebraica per fini nazionalisti: queste non sono convinzioni teologiche. Sono impalcature ideologiche. E pur essendo distinti dal Nazismo nella forma, ne riecheggiano la grammatica emotiva: purezza, profezia e redenzione militarizzata.

I Suprematisti Bianchi, compresi i neonazisti, hanno a lungo utilizzato l’antisemitismo come arma, eppure molti ora paradossalmente esprimono ammirazione per Israele. Non per il suo carattere ebraico, ma per la sua logica etnostatale, i suoi confini militarizzati e il suo uso sfacciato della forza. Vedono in Israele un modello di esclusione, non di inclusione. Uno Stato che definisce l’appartenenza attraverso il sangue, la terra (anche se rubata) e la religione, rispecchiando le loro fantasie Suprematiste.

Questa non è solidarietà. È proiezione. E rivela la frattura più profonda dell’alleanza: la stessa coalizione che difende il militarismo israeliano sta anche rilanciando luoghi comuni antisemiti, glorificando l’ideologia Nazista e minacciando la vita ebraica nella Diaspora.

E ora, mentre la retorica antisemita riemerge all’interno della stessa coalizione che afferma di difendere Israele, il costo per Israele (e con esso gli Stati Uniti) della sua strategia perversa e cinica sta diventando impossibile da ignorare.

E dove sono i palestinesi in tutto questo? Cancellata. Gestita. Riformulata come minaccia o ostacolo. L’alleanza tra Israele e la destra americana non si fonda solo su fantasie teologiche o convenienze strategiche. Si fonda sull’assenza palestinese. La loro espropriazione è la premessa silenziosa dell’alleanza. La loro Cancellazione è la condizione della sua coerenza.

Nell’immaginario Cristiano Sionista, la Palestina non è una Patria, ma un palcoscenico biblico. La terra è sacra, ma le persone che la abitano no. I palestinesi sono invisibili o considerati antagonisti della profezia. Come ha dichiarato Hagee, “Dio ha dato la terra di Israele al popolo ebraico per sempre. Appartiene a loro. Punto“. Non c’è spazio in questa frase per un bambino palestinese, un villaggio, un ricordo. La teologia ne esige la scomparsa.

Nella politica conservatrice americana, i palestinesi sono inquadrati non come un popolo con diritti, ma come una minaccia alla sicurezza. Il linguaggio è clinico: “tunnel del terrore”, “scudi umani”, “roccaforti di Hamas”. L’Umanità viene spogliata. Quando Gaza viene bombardata, l’alleanza si mobilita, non per piangere i morti, ma per difendere le bombe. Il dolore palestinese non viene semplicemente ignorato. Viene preventivamente screditato.

E nella strategia israeliana, l’esistenza palestinese è il problema da gestire. L’alleanza con la destra americana consente a Israele di ritardare indefinitamente la giustizia. Fornisce copertura all’Occupazione, impunità per i Crimini di Guerra e silenzio per l’Apartheid. Il costo di quell’alleanza non è solo ideologico. È umano. È palestinese.

Questa è la frattura che deve essere nominata. Non solo la ricomparsa dell’antisemitismo tra i difensori di Israele, ma la Cancellazione fondamentale dei palestinesi che ha reso possibile l’alleanza in primo luogo. L’alleanza si sta incrinando, non perché abbia ritrovato la chiarezza morale, ma perché le sue contraddizioni non sono più contenibili. E in quel tremore, c’è un’apertura. Non per la pietà. Per la giustizia.

II. L’avvertimento di Tikvah: la frattura nominata

Tikvah Ideas ha dato un nome alla frattura. In un editoriale del 2024, il circolo di pensiero conservatore filo-israeliano ha avvertito che i luoghi comuni antisemiti stavano riemergendo all’interno della destra americana, non ai margini, ma nella sua corrente principale. Tra queste, rivendicazioni di doppia lealtà ebraica, scetticismo verso le alleanze ebraico-cristiane, accuse di manipolazione della politica estera statunitense da parte di Israele e persino revisionismo dell’Olocausto.

L’avvertimento non era rivolto alla sinistra, dove le critiche al Sionismo vengono sistematicamente definite antisemite. Era rivolto all’interno, proprio alla coalizione che da tempo difende il militarismo israeliano.

Il 7 Ottobre ha intensificato la frattura. L’attacco guidato da Hamas e la successiva campagna militare israeliana a Gaza hanno innescato un’ondata di intensificazione della retorica nella destra americana. Ma quell’intensificazione ha rivelato un’incoerenza ideologica. Alcune voci conservatrici hanno raddoppiato il sostegno alla forza israeliana. Altre hanno iniziato a mettere in discussione il costo degli “impegni stranieri”, un’espressione che spesso nasconde sospetti antisemiti. L’alleanza, a lungo considerata sacra, ha iniziato a frammentarsi.

Nick Fuentes, un influencer di estrema destra che elogia apertamente Hitler e nega l’Olocausto, continua ad attrarre giovani seguaci conservatori. Ha dichiarato che “gli ebrei hanno troppo potere in America“, pur sostenendo allo stesso tempo il “diritto di Israele a difendersi“.

Nel 2022, Fuentes ha cenato con Donald Trump. Nel 2024, ha condotto dirette video durante la guerra di Gaza che mescolavano retorica filo-israeliana con teorie del complotto antisemite, accusando le élite ebraiche di orchestrare narrazioni mediatiche e di speculare sulla guerra.

Tucker Carlson, prima di lasciare Fox News, ha trasmesso segmenti che riecheggiavano luoghi comuni isolazionisti su coinvolgimenti stranieri e “doppia lealtà”. In una trasmissione del 2021, ha chiesto: “Perché continuiamo a finanziare governi stranieri che non condividono i nostri valori?“, una domanda che, nel contesto, si riferiva alle azioni militari di Israele a Gaza.

Dopo il 7 Ottobre, i successori di Carlson su piattaforme conservatrici come The Daily Wire e BlazeTV hanno amplificato una retorica simile, mettendo in discussione il costo del sostegno degli Stati Uniti a Israele e promuovendo al contempo ospiti che trafficavano in messaggi antisemiti.

Candace Owens, un’importante commentatrice conservatrice, ha criticato il “cieco sostegno a Israele” in un episodio del suo programma radio Web del 2024, insinuando che “i cristiani americani vengono strumentalizzati“. La sua inquadratura riecheggiava i luoghi comuni storici sulla manipolazione ebraica.

Nel novembre 2023, ha ripubblicato un tweet del rapper britannico Zuby che recitava: “Sostengo la pace. Non sostengo il Genocidio. Non mi interessa chi lo sta facendo“. Il tweet è stato ampiamente interpretato come una critica alle azioni di Israele a Gaza. Owens ha difeso il post, accusando i critici di “armare l’antisemitismo per mettere a tacere il dissenso“.

Su piattaforme come Gab, Telegram e Truth Social, i meme antisemiti circolano liberamente. Tra questi, caricature del controllo ebraico sui media, accuse secondo cui Israele avrebbe orchestrato l’11 settembre e affermazioni secondo cui l’Olocausto sarebbe stato esagerato per fini politici. Alcuni di questi account pubblicano anche contenuti pro-Israele, rivelando l’incoerenza ideologica al centro dell’alleanza.

Anche all’interno del conservatorismo istituzionale, le crepe sono visibili. L’Istituto Claremont, un tempo baluardo del pensiero filo-israeliano, ha pubblicato saggi che mettono in discussione la chiarezza morale della Seconda Guerra Mondiale e suggeriscono che l’interventismo americano, spesso legato a intellettuali ebrei, sia stato un errore. Nel 2024, un membro del Claremont scrisse che “il consenso del dopoguerra si basava sulla colpa, non sulla verità“, una linea che molti studiosi ebrei interpretarono come una minimizzazione dell’Olocausto.

Lo stesso Tikvah non è privo di contraddizioni. L’organizzazione ha storicamente confuso la critica di sinistra al Sionismo con l’antisemitismo e ha difeso politiche israeliane che molti pensatori ebrei, soprattutto quelli allineati con i movimenti per la giustizia, hanno condannato. Ma in questo caso, la loro preoccupazione è fondata. La destra americana sta mostrando segni di incoerenza ideologica. Sostiene il militarismo israeliano mentre mina la legittimità ebraica. Questa incoerenza comporta un rischio strategico.

La frattura non è solo retorica. È strutturale. L’alleanza tra Israele e la destra americana non si è mai basata su valori condivisi. Si è basata sull’asimmetria teologica e sull’utilità Suprematista. E ora, mentre l’antisemitismo diventa culturalmente accettabile all’interno della stessa coalizione che sostiene l’impunità israeliana, il costo di quell’alleanza sta diventando impossibile da ignorare.

III. Il patto strategico: guadagni a breve termine, pericolo a lungo termine

L’alleanza tra Israele e la destra americana ha prodotto straordinari guadagni strategici. Il sostegno evangelico garantisce miliardi di dollari in aiuti militari, impunità diplomatica alle Nazioni Unite e legittimità culturale nella politica americana. I media conservatori riformulano il militarismo israeliano come difesa morale. I legislatori Repubblicani promuovono una legislazione che protegge Israele dalla responsabilità internazionale. L’alleanza ha prodotto vittorie tangibili: il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, gli Accordi di Abramo, il definanziamento dell’UNRWA e la normalizzazione dell’Occupazione come “sicurezza”.

A. Il motore dell’impunità: la politica evangelica

Questa dinamica infligge danni diretti ai palestinesi. I sostenitori sfruttano i timori dell’antisemitismo come arma per giustificare il militarismo, presentando il bombardamento di Gaza e le misure di segregazione come difese necessarie. Il dibattito politico si sposta dai diritti dei palestinesi alla sicurezza israeliana, riadattando la sofferenza palestinese per legittimare la continua sottomissione.

B. Il paradosso: come l’antisemitismo rafforza l’alleanza

L’antisemitismo all’interno della destra americana spesso rafforza questo patto anziché indebolirlo. Personaggi dell’estrema destra che si servono di metafore antisemite spesso esentano lo Stato israeliano dalle loro critiche, elogiando i dirigenti israeliani e liquidando gli ebrei americani progressisti come sleali. L’alleanza strumentalizza così una visione ristretta e militante dell’identità ebraica e cancella la diversità e il dissenso ebraico.

C. Il costo palestinese: la sofferenza come scudo politico

Questa dinamica infligge un danno diretto ai palestinesi. I sostenitori usano la paura dell’antisemitismo come arma per giustificare il militarismo, presentando il bombardamento di Gaza e le misure di segregazione come difese necessarie. Il dibattito politico si sposta dai diritti dei palestinesi alla sicurezza israeliana, riproponendo la sofferenza palestinese per legittimare la continua sottomissione.

D. Le crepe nelle fondamenta: un’alleanza transazionale

Questa collaborazione utilitaristica crea significativi rischi a lungo termine per Israele.

1. Incoerenza morale. Quando gli alleati sostengono Israele per fede profetica o solidarietà etno-nazionalista piuttosto che per diritti umani universali, l’alleanza perde credibilità morale e diventa facile da dipingere come settaria e guidata dagli interessi.

2. Instabilità strategica. Gli alleati transazionali rimangono affidabili solo finché gli interessi si allineano; i cambiamenti demografici e teologici negli Stati Uniti potrebbero rapidamente rimuovere gli scudi diplomatici e lasciare Israele esposto.

3. Contaminazione della reputazione. L’allineamento con i movimenti di estrema destra che promuovono la Purezza Razziale e gli Stati Etnici attribuisce politiche di esclusione al marchio di Israele, restringendo lo spazio per una mediazione neutrale e una difesa legale.

E. L’inevitabile gioco delle accuse

Quando questa alleanza si romperà, Israele si troverà ad affrontare una grave crisi di legittimità. La coalizione che ha fornito copertura diplomatica avrà svuotato le fondamenta morali e legali della posizione di Israele, e i palestinesi saranno ancora una volta i primi a pagarne il prezzo. Influenti esponenti dell’estrema destra e alcuni Sionisti liberali hanno già additato la Resistenza Palestinese come la causa del crescente antisemitismo globale, una logica circolare che perpetua la violenza e fa sì che il quadro protettivo dell’alleanza diventi fonte di isolamento.

IV. Dare un nome alla resa dei conti: oltre la frattura

L’alleanza tra Israele e la destra americana si sta frammentando. I luoghi comuni antisemiti stanno riemergendo all’interno della stessa coalizione che difende il militarismo israeliano. La teologia evangelica strumentalizza la vita ebraica. Gli influencer di estrema destra glorificano Israele come modello di potere etnico-statale, attaccando al contempo i dissidenti ebrei che sfidano il Sionismo o affermano il pluralismo. Il loro sostegno non è alla vita ebraica, ma a uno Stato che rispecchi i loro ideali Suprematisti. L’impalcatura sta cedendo.

Ma la resa dei conti non può limitarsi a Israele. Deve includere gli Stati Uniti.

Il governo statunitense non è un osservatore passivo. È un co-architetto. Finanzia il militarismo israeliano, pone il veto alle Risoluzioni ONU, difende l’Occupazione come sicurezza e inquadra la Resistenza Palestinese come terrorismo.

Tratta la violenza israeliana come difesa e il dolore palestinese come minaccia. E quando queste politiche vengono messe in discussione, invoca l’antisemitismo, non per contrastare l’odio, ma per mettere a tacere le critiche. Afferma di opporsi all’antisemitismo, ma usa tale opposizione per proteggere l’Apartheid, Cancellare il dissenso e ritardare la Giustizia.

Questa contraddizione non è solo morale. È strategica. Gli Stati Uniti affermano di sostenere i diritti umani, il pluralismo e la legittimità democratica, eppure difendono un Regime che sancisce la Supremazia ebraica in termini di legge, territorio e cittadinanza. La Legge sullo Stato-Nazione del 2018, che definisce Israele come patria esclusiva del popolo ebraico, codifica l’esclusione. E gli Stati Uniti la difendono, non solo attraverso la retorica, ma attraverso le istituzioni:

I meccanismi del Congresso forniscono pacchetti di aiuti annuali e risoluzioni bipartisan che affermano l'”autodifesa” israeliana.

Quadri giuridici come la definizione di antisemitismo dell’IHRA confondono la critica al Sionismo con l’incitamento all’odio, mettendo a tacere la difesa palestinese.

Le istituzioni culturali, organi di stampa, circoli di pensiero, università, trattano il dolore palestinese come pericoloso, illeggibile o antisemita per definizione.

E ora, nell’ottobre 2025, Stati Uniti e Israele stanno avviando una nuova fase di ritardo strategico. L’accordo di cessate il fuoco mediato da Trump promette la fine dei combattimenti, il rilascio degli ostaggi e l’invio di aiuti umanitari. Ma dietro il suo linguaggio risolutivo si cela una logica di contenimento. Il Piano non affronta le cause profonde della guerra: Occupazione, Apartheid e spoliazione palestinese. Gestisce il dolore. Rinvia la resa dei conti. Ritarda la giustizia ritardando persino il riconoscimento del danno.

Israele accetta di ritirare le truppe, ma non di smantellare l’assedio. Hamas accetta di rilasciare gli ostaggi, ma non in cambio della Sovranità. Gli Stati Uniti inquadrano l’accordo come pace, ma non è pace: è silenzio procedurale. Trattano la sofferenza palestinese come un problema logistico, non come un’accusa politica. E così facendo, rafforzano proprio le impalcature che hanno reso la guerra inevitabile.

Perché gli Stati Uniti devono affrontare queste contraddizioni? Perché non sono più contenibili e stanno iniziando a corrodere le proprie fondamenta.

A livello globale, gli Stati Uniti perdono credibilità. Non possono affermare di difendere i diritti umani mentre proteggono l’Apartheid. Le loro alleanze strategiche assomigliano meno a diplomazia e più a Complicità.

A livello nazionale, le contraddizioni alimentano la polarizzazione. Man mano che sempre più americani, soprattutto giovani, afro, nativi e musulmani, guardano oltre l’impalcatura, il divario tra politica e principi si allarga. La fiducia si erode.

Istituzionalmente, gli Stati Uniti rischiano di radicare la logica Suprematista nel proprio governo. Difendendo un Regime che definisce la cittadinanza attraverso l’esclusione, normalizzano il pensiero etnico-statale in patria.

Per affrontare questa contraddizione, gli Stati Uniti devono fare ciò che hanno a lungo rifiutato:

Svincolarsi dalle alleanze Suprematiste. Ciò significa rifiutare il sostegno incondizionato a Israele, uno Stato che definisce l’appartenenza attraverso l’esclusione, sia essa razziale, religiosa o nazionale.

Smettetela di usare l’antisemitismo come arma per mettere a tacere le critiche palestinesi. L’antisemitismo deve essere contrastato, ma non usato per giustificare l’Apartheid.

Mettere al centro la Giustizia palestinese nella politica estera. Ciò significa riconoscere i diritti palestinesi non come una minaccia alla sicurezza ebraica, ma come una condizione di dignità condivisa.

Ridefinire il partenariato strategico. Partenariato non può significare impunità. Deve significare responsabilità, nei confronti della legge, del pluralismo, delle persone le cui vite sono influenzate negativamente dal potere americano.

Gli Stati Uniti devono smettere di proteggere Israele dall’esame approfondito. Se Israele attua l’Apartheid, deve essere denunciato. Se ritarda la giustizia, deve essere contestato. L’alleanza strategica non può significare esenzione morale.

La resa dei conti è attesa da tempo. L’alleanza si sta incrinando, non perché abbia ritrovato la chiarezza morale, ma perché le sue contraddizioni non sono più contenibili. Questo è ciò che il 7 Ottobre ha messo in luce, non solo violentemente, ma corrosivamente. Ha costretto l’impalcatura a parlare. E in quel discorso, la frattura è diventata visibile.

 * Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna proviene dal villaggio di Lifta, spopolato con la forza, nella periferia occidentale di Gerusalemme, e la cui famiglia materna è originaria di Ijzim, a Sud di Haifa. È un’attivista, ricercatrice e professoressa in pensione di letteratura inglese presso l’Università Al-Quds, nella Cisgiordania Occupata. (traduzione: La Zona Grigia). Articolo originale al link: https://rimanajjar.medium.com/cracks-in-the-unholy…

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