Passano i mesi e l’attacco statunitense al Venezuela bolivariano non avviene. Una flotta potente e 15.000 militari sono stanziati al largo delle coste, ma fin qui hanno bombardato soltanto piccole barche a bordo delle quali non si sa bene chi ci fosse. L’amministrazione Trump garantisce che si trattava di “narcotrafficanti”, ma non ha prodotto neanche uno straccio di prova. Si vede che non c’era…
Tutti gli organismi internazionali – neutrali – che si occupano istituzionalmente di narcotraffico garantiscono che il Venezuela, tra i paesi latino-americani, è quello che meglio collabora nella lotta. Al contrario, l’ex “presidente autoproclamato e riconosciuto dall’Occidente” – Juan Guaidò, ricordate? – è sparito dalla circolazione ancor prima di esser stato beccato in compagnia di narcotrafficanti colombiani.
Non è un mistero che là dove gli Stati Uniti riescono ad imporsi la produzione e il traffico di stupefacenti esplodono. E’ accaduto in Afghanistan, dove sotto occupazione la produzione dell’oppio era cresciuta del 95%. Avviene quotidianamente nei paesi latino-americani sotto il pieno controllo di Washington. E’ notizia di ieri, riportata da Axios, che l’ex presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernandez, estradato e incarcerato negli Usa, sta per essere graziato proprio da Donald Trump. Curioso modo di combattere il narcotraffico, non trovate?
Ma torniamo al Venezuela sotto attacco.
I problemi per l’amministrazione Usa si vanno moltiplicando. La Cnn spiega che l’iniziativa “rischia di degenerare in un pantano strategico, politico e legale”. Per un’errata valutazione della situazione interna al paese e sulla tenuta delle istituzioni bolivariane.
In pratica, l’opzione principale era stata quella di “esercitare pressione militare” – la flotta al largo, con tanto di portaerei Ford – al punto da facilitare una mezza insurrezione dell’”opposizione” (retoricamente guidata dal più paradossale dei premi Nobel per la pace, Corina Machado). Oppure per “persuadere” una parte dei vertici dell’esercito a non rischiare e quindi a convincere lo stesso Maduro a farsi da parte “con le buone”.
La scelta di questa strategia era del resto avvenuta prendendo atto di una impraticabilità dell’invasione di terra, sia per ragioni militari che politiche (l’opinione pubblica statunitense è contraria ad un’altra guerra, con una maggioranza impressionante). Si contava insomma sul potere “deterrente” di una minaccia tipicamente trumpiana – come sui dazi o l’annessione di Canada e Groenlandia – per ottenere un atto di sottomissione tutto sommato pacifico.
Anche la Cnn ha dovuto però spiegare ai suoi lettori – compresi i “Maga” e lo stesso Trump – che Maduro e tutto il vertice del Psuv si sono mostrati molto più resilienti (come si dice ora) del previsto. Anzi, “il presidente Nicolás Maduro ha ballato sfidante davanti a un’enorme folla di sostenitori a Caracas in un raduno all’aperto in stile Trump, sfatando le voci precedenti secondo cui avrebbe ceduto alle richieste statunitensi di lasciare il paese. ‘Noi non vogliamo la pace degli schiavi, né vogliamo la pace delle colonie’“.
La resistenza bolivariana ha costretto quindi Trump a convocare d’urgenza “i massimi funzionari e collaboratori della sicurezza nazionale in una riunione nello Studio Ovale lunedì sera, cercando di definire i prossimi passi in uno scontro che ora gli sfugge di mano”.
“Che fare?”, insomma. Di certo può bombardare impianti e infrastrutture, puntando a provocare un crollo dell’economia venezuelana che lo scorso anno è cresciuta più dell’8% ed ha raggiunto l’autosufficienza alimentare (al contrario di quanto avveniva al tempo dei dittatori fedeli a Washington). Ma questo non garantirebbe poi un presa di controllo del Paese, in modo da poterne sfruttare senza problemi le enormi riserve petrolifere.
Anche una “marcia indietro” – un classico per Trump – è in questo caso difficile. Dopo aver “mostrato il bastone” e aver provocato già un discreto numero di morti sarebbe la dimostrazione che l’impero Usa ormai non è più in grado di “far rispettare la propria volontà”, neanche nel “cortile di casa”.
Ai problemi di strategia si vanno sommando quelli creati dall’incompetenza del “ministro della guerra”, Pete Hegseth, ex conduttore televisivo di Fox News fin qui fattosi notare soprattutto per i modi bruschi (anche nei confronti dei suoi generali) e il rifiuto di alcune salvaguardie etiche e legali dell’esercito.
Proprio il bombardamento di una barca al largo del Venezuela è in questi giorni al centro della “polemica politica” a Washington. Si tratta di un “doppio attacco” – prima una bomba sulla barca, poi il mitragliamento di due sopravvissuti, in acqua – guidato personalmente dall’esaltato ex conduttore e registrato negli audio: “ammazzateli tutti”, lo si sente ordinare.
Per la Convenzione di Ginevra e tutta la legislazione internazionale questo è un “crimine di guerra”, ovvero un’azione ingiustificabile col risibile argomento secondo cui due uomini in acqua, in pieno oceano Atlantico, “rappresentavano un pericolo per l’America”.
Anche parecchi repubblicani si sono mostrati “colpiti ed indignati” – è retorica ipocrita, certo, ma del resto se ti vuoi presentare come “il migliore” anche sul piano etico devi stare più attento a quel che fai – e si sono anche fatte ipotesi di inpeachment mirato per Hegseth.
A quel punto l’ammiraglio Frank M. “Mitch” Bradley, comandante del Comando per le Operazioni Speciali, si è preso la responsabilità di aver dato quell’ordine. Subito dopo Hegseth lo ha difeso pubblicamente: “Chiariamo una cosa: l’Ammiraglio Bradley è un eroe americano, un vero professionista, e ha il mio 100% di supporto. Sto con lui e le decisioni di combattimento che ha preso – nella missione del 2 settembre e in tutte le altre da allora“.
Traduciamo. L’ammiraglio ha accettato di prendersi la responsabilità per un crimine di guerra, ma ha preteso la copertura politica. I vertici militari, insomma, non sono disponibili a subire gratis lo scaricabarile di politici incapaci, pronti ad attribuire ad altri le proprie colpe (suona familiare, vero?).
Come si vede, il “nodo Venezuela” si è complicato parecchio per l’amministrazione Trump. Che ora si trova a sua volta in una situazione senza una comoda via d’uscita.
Ogni tipo di opzione infatti presenta costi politici elevati. Impegnarsi in una lunga “operazione militare speciale” è altamente impopolare, anche perché difficilmente potrebbero essere evitare perdite tra i soldati Usa. Un attacco pesante a infrastrutture ed altri obiettivi strategici non darebbe comunque garanzie per un “cambio di regime” a Caracas, ma complicherebbe parecchio i rapporti con la Russia (con cui invece ha bisogno di arrivare ad un accordo di pace per l’Ucraina) e con la Cina (già preoccupata per le manovre sul Canale di Panama, le pressioni per Taiwan, ecc).
Ma anche lasciar perdere sarebbe una sconfitta, tanto più umiliante quanto più si è “agitato il bastone”.
E’ sempre la situazione peggiore in cui ci si possa trovare. Quella in cui “bisogna fare qualcosa”, ma ogni scelta è sbagliata o controproducente.
E’ la situazione in cui l’azzardo supera il calcolo. La più densa di rischi, per tutti…
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