Nel documento sulla Strategia della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti reso pubblico alcuni giorni fa, c’è una novità rilevante: il Medio Oriente e la vecchia geografia petrolifera del mondo non sono più una priorità strategica per gli USA.
Alcuni passaggi del capitolo del documento dedicato al Medio Oriente chiariscono questo cambio di passo.
In primo luogo la centralità delle risorse petrolifere della regione non sembrano essere più una preoccupazione per Washington: “L’offerta energetica si è notevolmente diversificata, con gli Stati Uniti di nuovo esportatori netti di energia”.
Ma in altri due passaggi il cambiamento diventa ancora più chiaro: “La storica ragione americana per concentrarsi sul Medio Oriente si affievolirà”, riporta il documento che poi fa una ammissione importante: “I giorni in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana sia nella pianificazione a lungo termine che nell’esecuzione quotidiana sono, fortunatamente, finiti”.
Singolare, ma significativa, la valutazione sulla percezione dell’instabilità nella regione mediorientale: “Il conflitto rimane la dinamica più problematica del Medio Oriente, ma oggi questo problema è meno grave di quanto i titoli dei giornali potrebbero far credere”. Sarebbero insomma i giornali a drammatizzare. Non è esplicito il riferimento a Gaza ma se non siamo al negazionismo del genocidio dei palestinesi, siamo alla sua rimozione come problema. Del resto è questa la linea adottata da tutti i governi occidentali dopo gli accordi di Sharm el Sheik e la “tregua” a Gaza.
Gli Stati Uniti di Trump sembrano poi voler abbandonare la politica di ingerenza sugli affari interni, soprattutto di quelli delle petromonarchie del Golfo: “Abbandonare il nostro esperimento sbagliato di ammonire queste nazioni – specialmente le monarchie del Golfo – affinché abbandonino le loro tradizioni e le loro forme storiche di governo. Dovremmo incoraggiare e applaudire la riforma quando e dove emerge organicamente, senza cercare di imporla dall’esterno”.
Infine, e non certo per importanza, c’è una presa di distanza dalle guerre scatenate in Medio Oriente tese a imporre dei regime change (dall’Iraq, alla Siria, alla Libia etc.): “Possiamo e dobbiamo affrontare questa minaccia a livello ideologico e militare, senza decenni di sterili guerre di “costruzione della nazione”.
La politica statunitense conferma l’alleanza con Israele – ma senza assegnarle un particolare rilievo – e rilancia gli accordi di Abramo con i paesi arabi come prospettiva da praticare nonostante – parole testuali – “Il conflitto israelo-palestinese rimanga spinoso”.
Nel documento trasuda anche un bel po’ di autocelebrazione e egocentrismo presidenziale: “La capacità del Presidente Trump di unire il mondo arabo a Sharm el-Sheikh nella ricerca della pace e della normalizzazione permetterà agli Stati Uniti di dare finalmente la priorità agli interessi americani”.
Sui nemici strategici di Israele nella regione, il documento esprime ottimismo per i risultati ottenuti.
“L’Iran – la principale forza destabilizzante della regione – è stato notevolmente indebolito dalle azioni israeliane dopo il 7 ottobre 2023 e dall’operazione “Midnight Hammer” del Presidente Trump nel giugno 2025” scrive il documento statunitense.
“I principali sostenitori di Hamas sono stati indeboliti o si sono ritirati. La Siria rimane un potenziale problema, ma con il sostegno americano, arabo, israeliano e turco potrebbe stabilizzarsi e riassumere il suo legittimo ruolo di attore integrale e positivo nella regione”.
Dunque dal rapporto sulla Strategia di Sicurezza Nazionale Usa emerge che gli Stati Uniti in buona parte ritengono di volersi sganciare dalle “rogne del Medio Oriente”. Un fattore che rende l’area un “terreno di contesa” nel nuovo assetto dei rapporti di forza internazionali.
In tal senso preoccupa quello che non c’è scritto e cioè che il compito di guardiano degli interessi statunitensi viene delegato ancora a Israele, a patto che questa non esageri nello “strattonare” le relazioni con i paesi arabi del Golfo.
Sulle aspirazioni nazionali dei palestinesi ad uno Stato o all’autodeterminazione invece non vi è nessuna traccia. La principale contraddizione della regione rimane così aperta e irrisolta, scomparendo ancora una volta dall’agenda politica. Come del resto lo era anche prima… fino al prossimo 7 ottobre.
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Per chi ne ha voglia, curiosità o pazienza qui sotto c’è il testo integrale del capitolo sul Medio Oriente contenuto nel documento di Strategia della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti.
Medio Oriente: Ridistribuire gli Oneri, Costruire la Pace
Per almeno mezzo secolo, la politica estera americana ha dato la priorità al Medio Oriente sopra tutte le altre regioni. Le ragioni sono evidenti: il Medio Oriente è stato per decenni il più importante fornitore mondiale di energia, un teatro primario della competizione tra superpotenze e un focolaio di conflitti che minacciavano di espandersi nel resto del mondo e persino sulle nostre coste.
Oggi, almeno due di queste dinamiche non sono più valide. L’offerta energetica si è notevolmente diversificata, con gli Stati Uniti di nuovo esportatori netti di energia. La competizione tra superpotenze ha lasciato il posto alle manovre delle grandi potenze, in cui gli Stati Uniti mantengono la posizione più invidiabile, rafforzata dal successo del Presidente Trump nel rivitalizzare le nostre alleanze nel Golfo, con altri partner arabi e con Israele.
Il conflitto rimane la dinamica più problematica del Medio Oriente, ma oggi questo problema è meno grave di quanto i titoli dei giornali potrebbero far credere.
L’Iran – la principale forza destabilizzante della regione – è stato notevolmente indebolito dalle azioni israeliane dopo il 7 ottobre 2023 e dall’operazione “Midnight Hammer” del Presidente Trump nel giugno 2025, che ha significativamente degradato il programma nucleare iraniano. Il conflitto israelo-palestinese rimane spinoso, ma grazie al cessate il fuoco e al rilascio degli ostaggi negoziato dal Presidente Trump, sono stati compiuti progressi verso una pace più duratura.
I principali sostenitori di Hamas sono stati indeboliti o si sono ritirati. La Siria rimane un potenziale problema, ma con il sostegno americano, arabo, israeliano e turco potrebbe stabilizzarsi e riassumere il suo legittimo ruolo di attore integrale e positivo nella regione.
Mentre questa amministrazione revoca o allenta le politiche energetiche restrittive e la produzione energetica americana aumenta, la storica ragione americana per concentrarsi sul Medio Oriente si affievolirà. Invece, la regione diventerà sempre più una fonte e una destinazione di investimenti internazionali, in settori che vanno ben oltre il petrolio e il gas – inclusi energia nucleare, intelligenza artificiale e tecnologie della difesa. Possiamo anche collaborare con i partner del Medio Oriente per promuovere altri interessi economici, dal proteggere le catene di approvvigionamento al sostenere opportunità di sviluppare mercati aperti e amichevoli in altre parti del mondo, come l’Africa.
I partner mediorientali stanno dimostrando il loro impegno nel combattere il radicalismo, una tendenza che la politica americana dovrebbe continuare a incoraggiare. Ma farlo richiederà di abbandonare il nostro esperimento sbagliato di ammonire queste nazioni – specialmente le monarchie del Golfo – affinché abbandonino le loro tradizioni e le loro forme storiche di governo. Dovremmo incoraggiare e applaudire la riforma quando e dove emerge organicamente, senza cercare di imporla dall’esterno. La chiave per relazioni di successo con il Medio Oriente è accettare la regione, i suoi leader e le sue nazioni per come sono, lavorando insieme su aree di interesse comune.
L’America avrà sempre interessi fondamentali nell’assicurare che le forniture energetiche del Golfo non cadano nelle mani di un nemico dichiarato, che lo Stretto di Hormuz rimanga aperto, che il Mar Rosso sia navigabile, che la regione non sia un incubatore o esportatore di terrorismo contro gli interessi americani o la patria americana, e che Israele rimanga sicuro. Possiamo e dobbiamo affrontare questa minaccia a livello ideologico e militare, senza decenni di sterili guerre di “costruzione della nazione”. Abbiamo anche un chiaro interesse nell’estendere gli Accordi di Abramo a più nazioni nella regione e ad altri paesi del mondo musulmano.
Ma i giorni in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana sia nella pianificazione a lungo termine che nell’esecuzione quotidiana sono, fortunatamente, finiti – non perché il Medio Oriente non conti più, ma perché non è più l’irritante costante e la potenziale fonte di catastrofe imminente che era una volta. Sta piuttosto emergendo come un luogo di partenariato, amicizia e investimento – una tendenza che dovrebbe essere accolta e incoraggiata. Infatti, la capacità del Presidente Trump di unire il mondo arabo a Sharm el-Sheikh nella ricerca della pace e della normalizzazione permetterà agli Stati Uniti di dare finalmente la priorità agli interessi americani.
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