Martedì sera, sul social Truth, il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di aver ordinato il blocco navale di tutte le petroliere venezuelane sanzionate, da e verso il paese sudamericano. Dopo l’assalto piratesco di qualche giorno fa verso un’altra imbarcazione, che era diretta verso Cuba, il tycoon decide di fare un passo ulteriore apertamente illegale per strozzare il socialismo bolivariano di Caracas.
Illegale perché le sanzioni stelle-e-strisce sono iniziative unilaterali riconosciute dal diritto internazionale come “atti di guerra”, che mietono vittime quasi quanto un attacco militare, usati come in questo caso per imporre politiche imperiali – e un regime change – senza impegnare direttamente boots on the ground i propri militari. Ma il messaggio è diretto anche verso la Cina, principale acquirente del petrolio venezuelano, che rappresenta anche un’entrata fondamentale delle finanze pubbliche.
La tesi senza prove portata fin qui da Washington a giustificazione dell’escalation è che il presidente venezuelano Nicolás Maduro sarebbe alla guida del “Cartel de los Soles”, organizzazione di narcotrafficanti designata come terroristica dagli States, e che tramite i proventi del petrolio la dirigenza bolivariana abbia finanziato terrorismo, traffici di droga e tratta di esseri umani. Peccato che quel cartello non esista (non è citato in nessuna indagine dell’Onu in materia) e che il Venezuela sia riconosciuto come particolarmente attivvo nella repressione del traffico di stupefacenti.
Due giorni fa, però, Trump ha cambiato “giustificazione” dichiarando che il blocco nei confronti dei venezuelani continuerà “fino a quando non restituiranno agli Stati Uniti d’America tutto il petrolio, la terra e gli altri beni che ci hanno precedentemente rubato“. Accusa sorprendente, certamente. Come può il petrolio presente in un paese sovrano essere “di prropietà” di un altro, peraltro a qualche migliaio di km di distanza?
Il riferimento è alla nazionalizzazione decisa da Hugo Chavez nel 2007, che allora revocò le concessioni accordate alle società statunitensi Chevron, ConocoPhillips ed Exxon Mobil, così come alla britannica BP, la francese Total e la norvegese Statoil, che hanno così perso il controllo sui giacimenti petroliferi in fase di sviluppo nel bacino del fiume Orinoco.
Non serve un grande avvocato internazionale per capire la differenza tra “proprietà” e “concessione”, ossia il permesso di estrarre una risorsa naturale che resta ovviamente di proprietà del paese in cui si trova…
A tutte le società straniere operanti nel paese fu comunque offerto di partecipare a joint venture, in cui almeno il 60% delle azioni sarebbe appartenuto alla società statale PDVSA. Successivamente, alcune compagnie hanno ricevuto risarcimenti monetari da Caracas, ma altre si trovano tuttora coinvolte in cause presso organismi arbitrali internazionali.
Il ministro venezuelano degli Esteri ha condannato l’iniziativa statunitense, accusando giustamente la Casa Bianca di voler “rubare le ricchezze che appartengono alla nostra patria“. Caracas ha ribadito la propria sovranità sulle risorse naturali e ha inviato una lettera ufficiale al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per denunciare le azioni di Washington.
E’ quanto normalmente accade nei processi di decolonizzazione, quando paesi prima schiavizzati e derubati assumono finalmente la libertà di decidere ed utilizzare le proprie risorse per svilupparsi anziché gonfiare i profitti privati stranieri.
Susie Wiles, capo dello staff di Trump, ha anch’essa gettato la maschera, dichiarando a Vanity Fair che la campagna di attacchi alle navi che ha causato decine di morti negli ultimi mesi mira soltanto a far cadere Maduro. Wiles ha affermato che il Trump “vuole continuare a far saltare in aria le barche finché Maduro non si arrenderà” (anche se molte delle imbarcazioni, specie quelle colpite nel Pacifico, non provengono dal Venezuela).
Quelle che sono vere e proprie esecuzioni extragiudiziali vengono usate come arma di pressione sullo scenario internazionale – sarebbero peraltro di dubbia efficacia: se appartengono davvero ai narcosa perché il governo locale dovrebbe sentirsi “colpito” -, mentre le forze armate statunitensi strozzano il paese impedendogli di commerciare liberamente.
Ciò ha tra l’altro portato a un rialzo dei prezzi del petrolio, mentre Chevron, che opera ancora in Venezuela con un’autorizzazione speciale, ha dichiarato che continua le sue attività senza problemi e nel rispetto delle sanzioni. E’ una società statunitense, che diamine!
Intanto, la misura presa dagli USA ha suscitato varie reazioni. Gli oppositori di Trump, certo in modo strumentale, denunciano che si tratta di un atto di guerra non autorizzato dal Congresso (come previsto dalla Costituzione), stigmatizzando il presidente. Ma del resto, vari esperti di diritto internazionale hanno già avvertito che un blocco navale è considerabile “legittimo” solo se effettivamente c’è una dichiarazione di stato di guerra, che sia de facto o formale.
In questo caso, però, mancano entrambe, anche se Washington può avvalersi di leggi proprie – unilaterali – che gli consentono di colpire obiettivi considerati “terroristici” in territorio straniero. Inoltre, la Camera statunitense ha respinto due risoluzioni che avrebbero impedito alla Casa Bianca di dare avvio a ostilità verso organizzazioni terroristiche e verso il Venezuela nello specifico senza l’approvazione del Congresso.
Chiaro che la definizione di “terrorista” diventa a questo punto una foglie di fico utilizzabile a piacere da chiunque abbia anche la forza di agire di conseguenza, senza che la vittima della definizione abbia fatto nulla.
La possibilità di incursioni aeree era già stata annunciata da giorni, ma il blocco navale rappresenta già un’escalation pienamente bellica che soffia sul fuoco delle tensione nel Caribe. Tensioni provocate dall’imperialismo USA che vuole imporre il proprio tallone di ferro sulle Americhe.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
