Gli equilibri sul Mar Rosso e sul Golfo di Aden si evolvono velocemente, palesando che la precipitazione bellica è una tendenza generale di questa fase storica, non un accidente dovuto a qualche “criminale”. Una tendenza che si nutre della crisi dell’imperialismo occidentale e, dunque, del “cane pazzo” israeliano che ne è l’avamposto nel Vicino Oriente.
I criminali, semmai, sono i rappresentanti di questa tendenza bellicista, e ieri il ricercato per crimini di guerra e primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu era a Mar-a-Lago, residenza del presidente USA Donald Trump, per discutere della situazione palestinese, ma anche degli altri nodi regionali.
Per ciò che riguarda la Siria, Trump si è limitato a dire che spera che Tel Aviv e Damasco vadano d’accordo. Intanto, continuano le violenze contro gli alawiti sulla costa. Sul fronte del paese dei cedri, non toccato nell’incontro ma accennato ai media da Trump, il disarmo di Hezbollah non è stato raggiunto entro la fine dell’anno, come voleva Tel Aviv.
Il problema, del resto, è che Israele continua a bombardare il sud del Libano, mostrando come le armi del gruppo sciita sono le uniche a poter garantire un minimo di deterrenza verso il terrorismo sionista, mentre Beirut è incapace di difendere i libanesi.
Per quanto riguarda l’Iran, Netanyahu sta premendo per riattaccare Teheran e il suo programma missilistico, e garantirsi anche un largo consenso in vista della grazia chiesta al presidente Herzog e alle prossime elezioni. Interpellato dalla stampa sul tema, il tycoon ha detto che se continuerà a procedere sul dossier dei missili, e soprattutto del nucleare, l’Iran verrà colpito di nuovo.
Su Gaza, è stata ribadita la farsa per cui il cessate il fuoco ha retto e funzionato, nonostante i centinaia di morti causati da Israele. Ad ogni modo, nonostante sia stato ripetuto che tutto è pronto per la fase 2 della tregua, rimane il convitato di pietra: Hamas. Trump lega questo passaggio al disarmo di Hamas, e il disarmo non avverrà senza l’autodeterminazione dei palestinesi, cosa contro cui Tel Aviv ha fatto un genocidio.
Se, dunque, la situazione sul campo nella Striscia rende impossibile la fase 2, e getta ombre sul fatto che l’unico modo per avviarla sarebbe quello di completare l’opera genocidiaria, l’unico dossier su cui Trump ha voluto dare gli “ordini” a Netanyahu è stato quello della Cisgiordania.
Fonti statunitensi hanno detto ad Axios che The Donald è preoccupato della violenza dei coloni contro i civili palestinesi, dell’instabilità finanziaria dell’Anp e dell’espansione degli insediamenti israeliani. Ovviamente, non perché abbia a cuore la causa palestinese, ma perché è convinto che ciò mette a repentaglio sia gli affari a Gaza, sia l’estensione degli Accordi di Abramo ad altri paesi.
Netanyahu avrebbe confermato che si occuperà della questione secondo i desiderata di Trump, ma questo sarebbe come spaccare il proprio governo con i rappresentanti dei coloni, come Smotrich e Ben Gvir. Perdere i 13 voti dei loro due schieramenti nella Knesset significherebbe una crisi di governo irreversibile, perciò ora la palla passa a loro. Rimane il fatto che la colonizzazione della Cisgiordania continua, contro ogni ipotesi di stato palestinese.
Se il cardine intorno al quale ruotano gli eventi dell’area è la questione palestinese, certo per l’impatto umanitario di un genocidio, ma soprattutto dal lato geopolitico e strategico, non bisogna ignorare le propaggini di un conflitto che regionale. Pochi giorni fa abbiamo reso conto delle frizioni tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che sono riesplose nello scontro tra proxies che operano nello Yemen.
Il 26 dicembre l’aviazione saudita ha colpito le postazioni del Consiglio di Transizione del Sud (STC), il gruppo secessionista che mira alla proclamazione di uno stato dello Yemen meridionale. Per quanto gli emiratini, padrini del STC, abbiano cercato di gettare acqua sul fuoco, la distanza con Ryad è evidente ed è stata sancita dai recenti bombardamenti.
Poche ore fa, c’è stato un secondo raid, nel porto yemenita di Mukalla, contro un carico di armamenti che sono state dichiarate come di provenienza emirati, verso il STC. Abu Dhabi ha detto che erano armi indirizzate alle sue forze, ma intanto il ministro degli Esteri di Ryad ha rilasciato un comunicato chiedendo il ritiro dei militari degli Emirati da dallo Yemen (richiesta assecondata subito dopo), e la fine del finanziamento dei secessionisti. Di fatto, l’alleanza anti-Houthi è morta.
Il controllo delle coste yemenite risponde alle volontà strategiche degli Emirati, che vogliono gestire lo stretto di Bab al-Mandab, accesso al Mar Rosso, e i traffici delle zone circostanti. Questo non farebbe che indebolire l’Arabia Saudita, costretta a guardarsi dai suoi confini meridionali, e indebolendo dunque la sua forza relativa nei confronti di Israele.
Gli Accordi di Abramo hanno sancito la convergenza tra le visioni di Tel Aviv e Abu Dhabi, e Netanyahu ha deciso un’ulteriore mossa per rafforzare la propria presenza a ridosso dello Stretto e allo stesso tempo minacciare gli Houthi nella parte nord-occidentale dello Yemen. Il tutto, però, a discapito definitivo della logora stabilità del Corno d’Africa.
Il governo israeliano ha infatti riconosciuto ufficialmente il Somaliland come stato indipendente. Quest’area aveva dichiarato la propria secessione dalla Somalia nel 1991, ma fino ad oggi non era mai stata riconosciuto sovrana da alcun membro delle Nazioni Unite. Questo getta benzina sul fuoco di un paese già “spezzetato” tra varie fazioni, e dove i raid statunitensi, insieme alle vittime civili, si contano a decine solo nel 2025.
È Netanyahu stesso ad aver detto che il riconoscimento del Somaliland si inserisce nello “spirito degli Accordi di Abramo“, ricollegando la scelta politica all’asse creato a livello regionale con gli Emirati. La promessa è quella di portare avanti la cooperazione in settori chiave come tecnologia, agricoltura e salute. Ma è evidente a tutti che la valenza è soprattutto militare e geostrategica, anche contro gli investimenti turchi nell’area.
Una maggiore presenza in un Somaliland indipendente e alleato offrirebbe a Israele e ai suoi partner un accesso privilegiato al porto di Berbera, completando la morsa sul Mar Rosso e sul Golfo di Aden. Il 27 dicembre una dichiarazione congiunta di 21 paesi musulmani e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica ha condannato il riconoscimento israeliano del Somaliland. Gli Emirati non erano tra i firmatari.
Molto netta anche la presa di posizione del leader di Ansarallah, Abdul-Malik al-Houthi (appunto, il movimento degli “Houthi”). I media hanno diffuso un discorso in cui viene dichiarato che qualsiasi presenza israeliana nel Somaliland è una minaccia alla sicurezza regionale e sarà considerata un obiettivo militare dalle forze yemenite.
Il 29 dicembre anche il ministro degli Esteri cinese ha rilasciato una dichiarazione condannando il riconoscimento del Somaliland, subito dopo che il suo omologo di Taiwan ha affermato che l’arcipelago, Israele e il Somaliland sono “partner democratici che condividono i valori della democrazia, della libertà e dello stato di diritto”. Taipei e Tel Aviv stanno stringendo i rapporti quali avamposti dell’imperialismo statunitense in due settori strategici per Washington.
La secessione del sud dello Yemen e quella del Somaliland sembrano ora due facce della stessa medaglia, che si collegano ai progetti coloniali su Gaza: un disegno strategico che mira a ridisegnare i confini della regione per porre una pietra tombale sull’autodeterminazione dei palestinesi e garantire il controllo delle rotte marittime globali, a costo di innescare nuovi e sanguinosi focolai di guerra.
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