ROMA
Ieri l’assemblea nazionale dei delegati Fiom del gruppo ha deciso – per il 21 ottobre – uno sciopero di otto ore in tutti gli stabilimenti di proprietà del Lingotto, qualunque sia il marchio installato all’ingresso, con manifestazione nazionale a Roma. Se riuscirà,come ci si augura, questo sarà un segno di vitalità della categoria – gli scioperi in Fiat sono sempre una scommessa con alto grado di incertezza – in vista della presentazione di una piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale di categoria. Com’è noto, Sergio Marchionne ha disdetto l’iscrizione a Confindustria, quindi la Fiat si ritiene svincolata dal rispetto dei contratti in essere e – come a Pomigliano, Mirafiori, Grugliasco – intende imporre dei ricatti travestiti da «referendum» in cui i dipendenti devono accettare un contratto solo aziendale tutto nuovo e una riassunzione ex novo, pena la chiusura dello stabilimento in cui lavorano.
Se si riesce a organizzare la resistenza in questa terra di nessuno chiamata Fiat – questo il ragionamento – sarà meno difficile fare altrettanto in tutte le altre imprese metalmeccaniche, che nell’assoluta maggioranza dei casi non possono replicare il ricatto torinese («o fate come dico io, o me ne vado»).
La relazione introduttiva di Giorgio Airaudo non aveva concesso nulla alla retorica e all’ottimismo di facciata. La descrizione del clima interno ai vari stabilimenti – portata direttamente da delegati di linea, non da «funzionari che fanno lavoro d’ufficio nelle salette sindacali» – aggiunge dettagli che forse sarebbe importante far conoscere a tutto il paese. Proprio per questo non sembra esserci alternativa: o si riesce a «unire tutte le varie vertenze che sono presenti nel gruppo Fiat» e a rovesciare la tendenza, oppure la via del disastro diventa più probabile.
Non è una scommessa semplice, ovviamente. Le situazioni sono molto diverse. Ci sono stabilimenti ormai dichiarati chiusi (Termini Imerese e Irisbus di Avellino), ma in cui Marchionne non vorrebbe vedere entrare un competitor (curiosamente per Termini sembra accettare Di Risio, «cinese italiano» della Dr, ma non i cino-americani della Dongfeng; lasciando quindi pensare che il primo non sia considerato un «vero» concorrente, mentre i secondi sì). Altri impianti sono attualmente fermi (Mirafiori e Pomigliano, in primo luogo). In altri si fanno straordinari per eccesso di lavoro, in altri ancora si è obbligati ai «contratti di solidarietà». Le differenze oggettive condizionano le risposte soggettive, si sa.
La scommessa dell’unità tra lavoratori con interessi locali così diversi presume un livello medio di «consapevolezza» parecchio alto. Ma se questo non esistesse, si aprirebbe la più feroce guerra tra poveri, con la gente richiusa nei singoli impianti e ridotta a sperare che le decisioni negative dell’azienda si scarichino su qualcun altro. Anche perché la Fiat ha problemi finanziari tali che «nessuno può sentirsi al sicuro e sperare che la tempesta non lo riguardi». Per esempio, «Iveco che fine farà? E Cnh, di cui è prevista la vendita in qualsiasi momento?». Entrambe sono aziende che al momento vanno bene, ma da qui ad alcuni mesi?
Per la Fiom la situazione è ovviamente difficile. «Sigle sindacali con metà dei nostri iscritti hanno 6 o 7 volte il nostro monte ore di permessi, soltanto perché hanno firmato quegli accordi», spiega Giorgio Airaudo, segretario nazionale con delega al settore auto. Le pressioni che – per esempio a Pomigliano – vengono esercitate sui lavoratori sono tremende: «cancella l’iscrizione alla Fiom, avrai la priorità per l’assunzione» (avverranno progressivamente nel tempo, non tutte subito). Ma ha anche una piattaforma rivendicativa da presentare ai lavoratori: «stabilizzazione dei precari, rientro degli espulsi dal ciclo, richieste salariali, tipo almeno 1.000 euro per il recupero del saldo del premio di risultato che l’azienda non paga da tre anni».
Al centro c’è l’attenzione per un «piano industriale» che più passa il tempo più diventa un canovaccio slabbrato, con modelli e stabilimenti che entrano ed escono dal perimetro aziendale. Quindi, intanto una certezza: «sciopero nazionale». Perché il sindacato – specie se conflittuale – ha ancora un senso. Mentre «Confindustria senza Fiat e un ruolo di contrattazione è finita, diventa inutile».
Fiom, 8 ore di sciopero: articolo 8 manovra è una legge per la Fiat
Mentre Scudiere della CGIL sottolinea come l’uscita di Marchionne da Confindustria potrebbe “confermare la scelta della Fiat di lasciare l’Italia”, la Fiom proclama per il 21 ottobre 8 ore di sciopero, anche perché l’articolo 8 della manovra “si configura come una legge per la Fiat”.
Per venerdì 21 ottobre la Fiom ha indetto uno sciopero di 8 ore, con conseguente manifestazione a Roma, per protestare “contro la chiusura degli stabilimenti, per la riconquista del contratto nazionale, per la salvaguardia del salario, contro ogni discriminazione e limitazione delle libertà dei lavoratori e del diritto di sciopero, per l’apertura di un tavolo nazionale che dia certezze al futuro dell’autoveicolo in Italia”, come si legge nel documento finale dell’Assemblea nazionale Fiom-Cgil delegate e delegati Gruppo Fiat. Il sindacato ritiene infatti inaccettabili “dopo la Cnh di Imola e dell’Alfa di Arese, le chiusure degli stabilimenti Irisbus di Valle Ufita e Fiat auto di Termini Imerese”, sottolineando che non solo questi “territori rischiano la desertificazione industriale” ma che la stessa “può estendersi all’intero Paese”. La Fiom precisa poi la “grave responsabilità” del Governo, non solo “nell’avere lasciato soli i lavoratori e le lavoratrici del gruppo Fiat” ma anche perché “l’articolo 8 nella recente manovra finanziaria correttiva, si configura come una legge per la Fiat”. Il sindacato guidato da Maurizio Landini rivendica quindi l’arduo obiettivo, in questi tempi di crisi dove a “dettare” le regole del gioco sono enti sovranazionali come la BCE, di riconquistare il “Contratto nazionale di lavoro”, sottolineando come in assenza del quale “ogni stabilimento viene lasciato a se stesso e messo contro gli altri”. La Fiom ricorda anche come inoltre la “Fiat-Chrysler deve ancora al paese un piano industriale con modelli certi, volumi attesi e tempi di avvio stabiliti per ogni stabilimento dell’auto” e che “deve essere ancora definita dopo lo spin-off la nuova missione produttiva di Fiat Industrial e la necessaria copertura degli investimenti”, denunciando come il Lingotto approfitti della crisi “nelle diverse realtà produttive per peggiorare le condizioni dei lavoratori, anche attraverso l’introduzione di nuove metriche del lavoro (come Ergo-Uas)”. Sembra paradossale come poi, nel 2011, un sindacato debba rimarcare, ancora una volta, che “la libertà di sciopero, d’assemblea, di riunione, il diritto a eleggere direttamente i rappresentanti dei lavoratori non può essere limitato da sanzioni e procedure che vadano al di là della Costituzione italiana” e che “va garantita la parità di genere e la tutela contro ogni discriminazione in tutti gli stabilimenti del gruppo” Fiat. E’ poi Vincenzo Scudiere, segretario confederale della CGIL, intervenuto all’assemblea dei delegati Fiom del Lingotto, a spiegare che “il modello autoritario di Marchionne senza regole e senza contratto deve essere isolato nel paese e tra le imprese”, sottolineando come la sua uscita da Confindustria potrebbe “confermare la scelta della Fiat di lasciare l’Italia”.
Remo Forbis
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