Non un solo settore della società mostra segni di vitalità positiva. Solo “il sommerso”, infatti, cresce. Ma questa è una misura della rovina, non certo dello sviluppo.
La crisi economica in Italia ha colpito in particolar modo i giovani. «La crisi si è abbattuta come una scure su questo universo: tra il 2007 e il 2010 il numero degli occupati è diminuito di 980.000 unità e tra i soli italiani le perdite sono state pari a oltre 1.160.000 occupati». «Investita in pieno dalla crisi, ma non esente da responsabilità proprie, la generazione degli under 30 – si legge nel Rapporto Censis – sembra incapace di trovare dentro di sè la forza di reagire. La percentuale di giovani che decidono di restare al di fuori sia del mondo del lavoro che di quello della formazione è in Italia notevolmente più alta rispetto alla media europea: se da noi l’11,2% dei giovani di età compresa tra 15 e 24 anni, e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, non è interessato a lavorare o studiare, la media dei 27 Paesi dell’Ue è pari rispettivamente al 3,4% e all’8,5%. Di contro, risulta da noi decisamente più bassa la percentuale di quanti lavorano, pari al 20,5% tra i 15-24enni (la media Ue è del 34,1%) e al 58,8% tra i 25-29enni (la media Ue è del 72,2%)».
Nonostante l’occupazione resti al palo, «non si registra l’emergere di atteggiamenti più intraprendenti». Per esempio gli italiani sono in assoluto i meno propensi, tra i giovani europei, a lavorare in un altro Paese europeo: si dichiara desideroso o disposto a farlo solo il 40,9% degli intervistati. Inoltre i giovani, che dovrebbero rappresentare il segmento più avvantaggiato da una maggiore liberalizzazione dei licenziamenti, «già oggi – rileva ancora il Censis – sono quelli su cui più grava il costo della mobilità in uscita». Nel 2010, su 100 licenziamenti che hanno determinato una condizione di inoccupazione, 38 hanno riguardato giovani con meno di 35 anni e 30 persone con età compresa tra 35 e 44 anni. Solo in 32 casi si è trattato di persone con 45 anni di età o più.
Ma non si indaga affatto – e forse sarebbe il compito della politica, più che di un istituto di ricerca – sui perché di questa abulia.
«Mentre l’occupazione ufficiale stenta a dare segnali di ripresa, quella sommersa sembra al contrario dare prova di tenuta e trarre semmai un nuovo stimolo di crescita dal difficile momento». A partire dal 2008, a fronte di un calo generalizzato dell’occupazione regolare (-4,1%), quella informale aumenta dello 0,6%, portando il livello di irregolarità del lavoro nel 2010 alla soglia del 12,3% e lasciandosi alle spalle i positivi risultati di un decennio. Ma proprio questa espansione della melma produttiva, dove scompaiono diritti, minimi salariali e di orario, chiarezza di ruoli e contrapposizione logica e/o sindacale di figure produttive, è fonte a sua volta di abulia e rassegnazione. Se la vita deve essere guadagnata in un ambiente “senza regole”, scompare dall’orizzonte anche la possibilità del cambiamento e della reazione – persino individuale, “imprenditoriale” – alla situazione presente. Specie se a questa “anomia” imprenditoriale diffusa si associa la contestuale riduzione dei servizi pubblici, che dovrebbero costituire la “rete protettiva” degli individui restituendo loro, al tempo stesso, il senso della socialità che include i singoli, invece si triturarli nella solitudine.
«I cittadini e le imprese si trovano a fare i conti con un sistema dei servizi che mostra evidenti segnali di criticità», sottolinea il Censis, spiegando che «la politica di riduzione della spesa pubblica che ha contrassegnato gli ultimi 3 anni, e che segnerà anche il biennio 2012-13, realizzata in molti casi attraverso tagli lineari, sta lasciando il segno». In particolare il trasporto pubblico locale, già «inadeguato» è stato «drasticamente ridimensionato».
La crisi economica degli ultimi anni ha ridotto il reddito disponibile delle famiglie e ha provocato conseguentemente una «caduta della propensione al risparmio» anche «a causa dell’irrigidimento» di alcuni consumi. In questo contesto la riduzione della quota di risparmi sembra però non avere colpito gli investimenti fissi, come le abitazioni. Il valore dello stock di abitazioni possedute, stimato in oltre 4.800 miliardi di euro, con un incremento che sfiora il raddoppio (+93% nominale) nell’arco di un decennio. «Una quota di questo incremento è attribuibile all’effetto dei prezzi, ma una quota rilevante è il risultato della scelta delle famiglie di destinare all’investimento in abitazioni una parte consistente dei propri risparmi». Ulteriori 1.000 miliardi di euro sono rappresentati dalle altre attività reali (oggetti di valore, terreni, fabbricati non residenziali e beni produttivi). Le attività finanziarie si aggirano intorno ai 3.600 miliardi di euro.
E’ il quadro di una ricchezza “immobilizzata” in senso stretta, puramente difensiva o parassitaria, che non mette in cricolo nessuna riproduzione allargata – capitalistica, certo, ma riproduzione – e che quindi “congela” ogni aspetto potenzialmente “vitale”. E’ inquietante – capitalisticamente parlando – che le “attività reali” (ovvero produttive economicamente) siano appena il 12-14% del totale del patrimonio disponibile, circa il 60% del prodotto interno lordo annuale.
E’ una dinamica impoverente dal lato del reddito, che fa sempre più fatica a sopravvivere. E ne risente dunque anche la “propensione al risparmio”. Che a metà degli anni ’90 era superiore al 20% del reddito disponibile e a metà dello scorso decennio oscillava ancora tra il 15% e il 17%, ma ora «ha subito – scrive ancora il Censis – una progressiva contrazione, che l’ha portata ad attestarsi oggi su un ben più modesto 11,3%». Tradotto in termini di risorse concretamente a disposizione, ciò significa che per ogni nucleo familiare (la famosa “media del pollo”, comunque indicativa di una tendenza) i risparmi accumulati su base trimestrale sono passati da 1.860 euro di fine 2005 a poco più di 1.200 euro alla metà del 2011: una flessione che in cinque anni e mezzo è stata complessivamente del 34,5%.
Significa, sul piano concreto della società e tenuto conto delle aumentate disparità di reddito, che molte famiglia non sono più in grado di risparmiare nulla. O che addiritura debbono erodere i risparmi, se ne disponevano prima.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa