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116 milioni a rischio povertà

Un medico schizofrenico. Tra i tanti che si affannano attorno al malato «Europa» l’Ocse ha fama di grande attendibilità. E quanto a dati, non c’è problema alcuno. È sul piano delle cure che i le contraddizioni diventano gigantesche anche per un miope. Lo stesso discorso si può fare per la Commissione Ue, nel rapporto preparato per la conferenza «Jobs 4 Europe».
Partiamo dall’incontestabile. Nella consueta raffica di numeri consegnata dai due organismi, tra consuntivi e stime, ne spunta uno davvero impressionante: nei 27 paesi dell’Unione ben «116 milioni di persone sono a rischio povertà». Il perché è presto detto: la disoccupazione è arrivata all’11,2% nella sola eurozona, ma anche quel poco di lavoro che c’è è sempre più a basso reddito. «Quasi il 94% dei lavori creati nel 2011 sono part-time e il 42,5% dei giovani ha contratti a tempo determinato». Stiamo parlando di tutta Europa, non della nostra Italietta.
La prima conclusione è persino sensata: con cifre così «preoccupantemente elevate» è inevitabile che «in alcuni paesi ci sia un’emergenza sociale reale». Del resto, anche senza analizzare troppo da vicino le vicende di Grecia e Spagna, il 50% dei giovani è disoccupato e altri 10 milioni di cittadini «unitari» è nella stessa condizione da oltre un anno, due famiglie su tre hanno visto scendere i propri redditi, ecc. Non è una situazione che si possa affrontare con inviti alla calma, «impegniamoci tutti» e sermoncini sulla «luce in fondo al tunnel». L’instabilità politica – ha sintetizzato Herman Van Rompuy, presidente dell’Eurogruppo – è dietro l’angolo.
Specie se il futuro a breve è più nero del recente passato. L’Ocse ha infatti «rivisto al ribasso» le stime sul Pil dei 30 paesi più industrializzati. L’Italia perderà quest’anno il 2,4% (ma solo se nell’ultimo trimestre andrà un po’ meno peggio di adesso), la precedente stima era un quasi ottimistico -1,7. Stesso discorso per quasi tutti i paesi considerati, tranne il Giappone che «beneficia» della ricostruzione post-terremoto e tsunami. Crolla verticalmente anche la Gran Bretagna conservatrice (da +0,5 a -0,7%).
Viene persino riconosciuto che le politiche di risanamento dei conti pubblici «stanno frenando l’attività produttiva nel breve termine», agendo in modo «prociclico» nel momento sbagliato. Così che potrebbe verificarsi quel «circolo vizioso» per cui il calo del Pil scompagina anche le previsioni sui deficit pubblici, costringendo ad altre «manovre» che fanno cadere ancora di più il valore del prodotto.
Bene. Se questa è la situazione, quale è la cura consigliata? L’unico dio in grado di fare qualcosa è individuato nella Ce, cui – prima della riunione di ieri – veniva consigliato di «intervenire sul mercato obbligazionario per riportare gli spread entro una gamma giustificata» (cosa che Draghi ha promesso di fare subito) e di abbassare i tassi di interesse (cosa rinviata). Qui si esaurisce il buon senso e comincia l’ideologia liberista.
Il capoeconomista, Pier Carlo Padoan, critica ad esempio l’Italia per «non aver fatto abbastanza per migliorare la propria competitività», aumentando «la produttività». In economia, si sa che la produttività dipende dagli investimenti, non dall’aumento dell’orario di lavoro o dalla diminuzione del salario. Se uno sposta a piedi sacchi di cemento, puoi farlo lavorare anche 24 ore al giorno, la sua «produttività» non aumenta. Se compri e installi un nastro trasportatore, invece…
E invece: «l’Italia è uno dei paesi in cui il costo unitario del lavoro non è diminuito, e questo è un problema». Perciò vanno implementate quelle «riforme» che «possono facilitare l’adeguamento (al ribasso, ndr) dei salari e ridurre il rischio che la disoccupazione si radicalizzi».
Anche il segretario dell’Ocse, Angel Gurria, insiste sulla stessa medicina e addirittura indica la «riforma del mercato del lavoro» targata Fornero come «impressionante»; al punto che «la stiamo seguendo molto da vicino».
A conti fatti, dunque, la ricetta consigliata è un abbassamento generalizzato dei salari… per aumentare l’occupazione. Tutti più poveri, insomma, così si abbassa anche la soglia – statistica – della povertà.

da “il manifesto”

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