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La tenaglia Marchionne-Monti-Camusso sulla Fiom

Partiamo dall’articolo molto informato di Repubblica, a firma di Paolo Griseri, giornalista torinese, ex de il manifesto, che la Fiat conosce come le sue tasche.

Niente tagli se aderite agli accordi”. Spunta l’ipotesi di un lodo Monti
Si tenta di far intervenire il premier per mettere fine allo scontro
PAOLO GRISERI
TORINO

Serve un lodo. Serve un’autorità superiore che provi a mettere ordine nella guerra fuori controllo della Fiat costringendo tutti gli attori in campo a fare un passo indietro. Ieri pomeriggio, mentre le dichiarazioni ufficiali di ministri e sindacalisti chiedevano di metter fine allo scontro di Pomigliano, nel retroscena si apriva la discussione sul lodo. L’idea è quella che sia il governo a convocare azienda e sindacati non per una trattativa ma per un prendere o lasciare che provi a spegnere l’incendio. Una riunione ristretta, 6-7 persone al massimo. Una riunione preparata da contatti della vigilia in modo da evitare di mettere i convenuti di fronte a sorprese dell’ultima ora.

Chi potrebbe presiedere l’incontro? L’unico esponente del governo sembra essere Mario Monti. L’uomo del quale Marchionne ha ripetuto anche ieri (con un’intervista al Corriere della Sera) di fidarsi. Al punto che nei giorni scorsi si è addirittura ipotizzato che il rinvio di tagli drastici agli stabilimenti italiani del gruppo Fiat sia stato deciso dal manager di Torino per non mettere in difficoltà l’amico premier. Dunque Monti. Anche per un secondo motivo: nessun ministro oggi vorrebbe prendersi sulle spalle da solo un dossier tanto delicato. Inoltre nessuna delle due parti, azienda e sindacato, potrebbe facilmente dire di no al capo del Governo.

Complesso ma non impossibile prevedere il contenuto del lodo che il premier imporrebbe alle parti. «Una delle strade potrebbe essere quella di proporre lo scambio tra l’adesione della Cgil agli accordi e la riammissione in fabbrica dei suoi rappresentanti», diceva ieri un autorevole sindacalista che gli accordi li ha firmati. In questo modo la Fiat potrebbe ritirare la minaccia di licenziamenti a Pomigliano (che peraltro avrebbe molte difficoltà legali a tradurre in realtà). Il nodo è tutto nel significato del termine «adesione». Sarebbe molto difficile per la Fiom firmare gli accordi che in questi anni ha contestato. Ma un conto e la firma, un altro è l’impegno scritto a rispettarli pur non condividendoli. Una strada stretta ma non impossibile da percorrere come dimostra la storia sindacale italiana.

La Fiat potrebbe certamente rifiutare la proposta. Ma nei prossimi anni, se il mercato americano continuerà a tirare, avrà bisogno degli stabilimenti italiani. E avrà anche bisogno di un certo livello di tranquillità sulle linee, soprattutto se si vuol competere nel settore delle auto di gamma alta. Non si fa concorrenza alla Bmw mentre in fabbrica si consumano le vendette tra sigle sindacali e si minacciano di licenziamento i dipendenti. Per queste ragioni forse anche a Torino converrebbe un intervento in grado di rasserenare il clima.

Ai sindacati firmatari degli accordi, in particolare alla Cisl, una soluzione non cruenta della guerra di Pomigliano permetterebbe di uscire da una posizione scomoda. A pochi mesi dall’espulsione dei delegati della Fiom dalle fabbriche della Fiat, il sindacato di Bonanni sta entrando in sofferenza perché rischia di essere considerato a sua volta estremista rispetto alle altre sigle. «Il rischio – ha detto pubblicamente a Bonanni il segretario torinese della Fim, Claudio Chiarle – è che noi perdiamo la leadership tra i sindacati firmatari degli accordi. Cominciamo ad essere vissuti con fastidio dall’azienda perché noi le piattaforme ce le scriviamo, gli altri sindacati se le fanno scrivere».

E’ evidente che un lodo del genere (adesione agli accordi in cambio del rientro in fabbrica) aprirebbe una dura discussione nella Cgil e nella Fiom in particolare. Ma avrebbe il vantaggio di far tornare in azienda il sindacato di Landini senza costringere l’organizzazione a improbabili pentimenti. Soprattutto se il Governo, per parte sua, si impegnasse a varare un decreto sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro che evitasse il ripetersi di situazioni analoghe. Tra gli scogli da superare c’è infine l’atteggiamento di alcuni esponenti del Governo. Che ieri sera si chiedevano per quale motivo l’esecutivo dovrebbe supplire all’incapacità di azienda e sindacati di uscire dall’angolo. Forse perché, rispondevano i fautori del lodo, i governi, soprattutto quelli tecnici, servono anche a questo.

Lo schema è chiarissimo. La Fiom vince le cause in tribunale perché non tutte le leggi sui diritti sindacali e sul mercato del lavoro sono state ancora cancellate, nonostante prima Berlusconi-Sacconi e poi Monti ci abbiano lavorato intensamente. In qualche misura anche perché ci sono ancora in servizio effettivo dei magistrati del lavoro che si sono formati giuridicamente nei decenni passati, quando la sfera dei diritti si andava allargando o comunque non veniva più messa in discussione. Succede, nei trapassi d’epoca, che alcune istituzioni siano “non al passo” con le nuove esigenze. Accadde la stessa cosa nel primo dopoguerra, con una magistratura di cultura e fedeltà fascista, in una società che scopriva la libertà politica e sindacale.
Oggi il processo è chiaramente opposto, e le sentenze che danno ragione ai lavoratori o ai sindacati conflittuali sono vissute dal potere come residui di un’epoca da archiviare. Di “prima di Cristo”, direbbe Marchionne.
Il quale, con la mossa dei 19 licenziamenti a Pomigliano per far posto ad altrettanti iscritti Fiom su ordine della magistratura, ha creato consapevolmente un conflitto che solo “la politica” può provare a questo punto a sanare. Ma è chiaro anche che si è trattato di una mossa, perlomeno in una certa misura, “contrattata” col governo e i partiti che lo sostengono.
La tagliola a questo punto è pronta. La Fiom può rientrare in fabbrica se accetta oggi quel che ha rifiutato due anni fa.
La distinzione gesuitica tra “firmare” e “rispettare” quegli accordi è naturalmente pura forma. Ma proprio nella pura forma viene visto lo “spazio” per una “mediazione” che comporti una resa di fatto delle tute blu di Landini, con quel tanto di belletto che possa tornar utile a salvare l’onore. Per questa soluzione la Fiom sarà pressata direttamente dalla segreteria confederale, ovvero da quella Susanna Camusso che già ai tempi del referendum di Pomigliano si era schierata per una “firma tecnica”.
Cosa farà la segreteria nazionale della Fiom, di recente rivoluzionata e “landinizzata” con l’estromissione di Sergio Bellavita, non è facile da prevedere. Da un lato sono obbligati ad andare all’eventuale tavolo convocato dal governo, visto che più volte avevano chiesto all’esecutivo di intervenire per riportare la Fiat al rispetto delle leggi dello Stato. Va però sottolineato che un simile intervento è stato sempre esplicitamente rifiutato proprio da Monti, con la motivazione ideologica che “un’impresa è libera”. Il fatto che il governo si muova soltanto adesso, dopo “la mossa” di Marchionne, prefigura comunque un tavolo a senso unico. Dove il “prendere o lasciare” sarà indicato fin dall’introduzione.
Dall’altro lato, però, la Fiom non può accettare un simile “compromesso verbale” (non “firma”, ma “accettazione”) senza perdere immediatamente buona parte della grande simpatia e consenso sociale che l’ha circondata negli ultimi due anni e mezzo. E’ una valutazione che ha anche implicazioni elettorali, perché non è affatto un mistero che la Fiom stia cercando sponde politiche a sinistra del Pd, nell’instabile mondo a cavallo tra grillini, “arancioni” e via dicendo.
Una partita dura e difficile, senza dubbio. Che rende più evidente la debolezza strategica della Fiom, categoria importante, centrale nello schieramento di classe di questi anni, conflittuale nella sua grande maggioranza (i “camussiani” non vanno oltre il 20%, mentre è rilevante anche la componente di sinistra Rete28Aprile, coordinata da Cremaschi e Bellavita), ma indebolita – al dunque – dall’appartenenza alla Cgil. Quello che era un punto di forza fino all’inizio del terzo millennio – far parte della più grande confederazione sindacale del paese – si è rivelato, soprattutto con le segreterie recenti di Guglielmo Epifani e Susanna Camusso, entrambi non per caso ex socialisti craxiani, un handicap politico e sindacale notevole. In guerra si direbbe “accoltellati alle spalle mentre si combatte contro nemici potentissimi”.

Ma riteniamo sia anche un problema di cultura politica, in cui si sono certamente formati i dirigenti più importanti della Fiom. Quella del forse migliore Pci, che era però e purtroppo per loro, il Pci. Cosa intendiamo dire? Che “i nemici” stanno sempre alla propria sinistra, mentre il focus strategico dell’azione è incentrato sull’”allargamento a destra”, sul compromesso con “i meno peggio” tra gli avversari. Il “compromesso storico” quarant’anni dopo…

Una prospettiva allora fallimentare, non metabolizzata e sempre reiterata come un tic ideologico che prepara nuove sconfitte. Una prospettiva oggi addirittura annientata dal processo di costruzione autoritario dell’Europa iperliberista, che fa a pezzi il suo stesso “modello sociale”, distruggendo i “corpi intermedi” (partiti, sindacati, associazioni) che tenevano insieme “popolo” e istituzioni.

Monti si presenta dunque con una proposta che non si può rifiutare, esattamente come quella di Marchionne due anni e mezzo fa. E la Fiom è stretta tra una “trattativa” per la resa e il rilancio del conflitto su nuove basi. L’importanza della “cultura politica” si vede proprio nel momento di prendere decisioni da cui non si può tornare indietro.

E sbaglia chi pensa che sia soltanto un “affare della Fiom”. Comunque si chiuda questa partita, il risultato ricadrà su tutti noi.

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