L’Osservatorio Nomisma sulle 13 principali città italiane regsitra un calo dei prezzi nominali abbastanza contenuto (cui va aggiunta naturalmente l’inflazione, superiore al 3% per l’anno in corso): in media il metro quadro vale il 4% in meno di un anno fa. Si tratta di una caduta superiore alle previsioni fatte allora dalla stessa Nomisma (appena -0,8%).
I maggiori cali nelle quotazioni si sono registrate a Firenze e Torino (-5,9% e -4,7%). Non va molto meglio il sud, che però registrava già prezzi molto più bassi della media nazionale: Bari (-2,9%), Cagliari (-3%), Palermo (-3,1%).
E tutto questo mentre il fabbisogno abitativo cresce a dismisura. Ma la “domanda”, presente e soprattutto futura, fatta di precari a vita, sarà per decenni a questo punto “non solvibile”, perché impossibilitata a contrarre mututi a tassi crescenti per acquisati di case sul mercato libero.
I costruttori sono i primi ad avvertire che, continuando così, loro dovranno chiudere a mazzi. E quindi rispolverano il “piano casa” di Amintore Fanfani, degli anni ’50 (la “modernità” fa di questi scherzi): se i salari stanno tornando quelli di allora, la struttura dei consumi farà la stessa fine, a cominciare dalla casa. E quindi?
Quindi si torna a proporre la pensata di Fanfani, ai piani di edilizia popolare per costruire case da vendere “a riscatto” affidandone la gestione temporanea agli Iacp (ora Ater) che stavano per esser chiusi.
Naturalmente il meccanismo pensato dai costruttori è molto meno “sociale” di quello fanfaniano e molto più “affaristico”. Ma è un segnale della gravità della crisi e del fallimento – ideologico e pratico – del “meno Stato più privato”. Tanto è vero che pensano, anche loro, a farsi finanziare dall’unica gallina dalle uova d’oro rimasta in circolazione: la Cassa Depositi e Prestiti, ovvero i risparmi dei cittadini presso la Posta.
L’articolo de IlSOle24Ore:
Ciaccia lancia il nuovo «piano Fanfani» per la casa
Serve un vero e prioprio piano casa
Il viceministro alle Infrastrutture, Mario Ciaccia, rompe gli indugi e dice quello che nessuno nel Governo aveva ancora detto: i progetti di housing sociale, per quanto importanti e innovativi, non bastano e serve invece un vero e proprio “piano casa” sul modello, adattato ai tempi, del “piano Fanfani” della fine degli anni 50. Ciaccia lo ha detto intervenendo stamattina alla Triennale, al convegno Ance «Cosa succede in città».
Ciaccia: e non basterà
A dire la verità, Ciaccia ha ammesso che non basterà neanche il piano città, con i 420 progetti presentati per un importo di quasi 12 miliardi, a soddisfare il fabbisogno abitativo e di infrastrutture metropolitane. «Il piano Fanfani – dice Ciaccia – prevedeva in origine il patto di futura vendita, trasformato successivamente in piano di riscatto, con ipoteca sull’immobile da estinguere all’avvenuto pagamento delle rate previste. Oggi – ha continuato Ciaccia – esistono tutti gli strumenti operativi per adattare con successo il Piano all’attuale quadro istituzionale: una grande alleanza, un grande patto tra cittadini, Cassa Depositi e Prestiti, sistema bancario, Fondazioni, Mondo delle costruzioni».
Cartelle fondiarie con la collaborazione di Cdp
L’ipotesi avanzata da Ciaccia prevede che «la Cassa Depositi e Prestiti e anche la Bei potrebbero acquistare i titoli emessi dalle banche per finanziare i mutui residenziali, con una forte riduzione del costo della raccolta. In altri termini: cartelle fondiarie con la collaborazione di Cdp e, meglio ancora, cartolarizzazione di mutui già in corso concessi dalle banche. Tra gli strumenti operativi, inoltre, gli ex Iacp potrebbero essere i gestori del patrimonio realizzato per il periodo di locazione previsto».
Allentare i vincoli del patto di stabilità
C’è un solo problema: per varare un piano casa, o anche qualunque altra ipotesi di politica abitativa, è necessario subito un allentamento dei vincoli del patto di stabilità sui comuni, con una deroga più ampia di quella che si sta immaginando di introdurre nella legge di stabilità (al Senato) per il piano contro il dissesto idrogeologico. Se il “piano Clini” si potrebbe applicare, infatti, solo ai comuni in ordine con i bilanci e con il patto di stabilità interno, per la casa andrebbe prevista una deroga anche per i comuni inadempienti. Ciaccia è pronto a battersi per questa nuova politica. Ma a Via Venti Settembre ci sentono da questo lato?
Da Fanfani alla finanza immobiliare del Piano di social housing, quasi 70 anni di esperimenti sull’emergenza abitativa
di Massimo Frontera
In principio fu il piano “Ina casa”: la soluzione keynesiana per rilanciare l’economia dell’Italia che usciva dalla seconda guerra mondiale e allo stesso tempo dare un alloggio dignitoso alla domanda di massa delle famiglie che cominciavano ad assediare le gradi città.
Il piano Ina casa si è sposato nella memoria collettiva ad Amintore Fanfani. Fu infatti l’esponente Dc, nella sua veste di ministro della Previdenza sociale del governo Saragat a lanciare il programma nel 1949. Il piano Ina era sostenuto dalla possibilità di riscattare, piano piano nel tempo l’alloggio: si pagava come una casa in affitto ma alla fine diventava l’agognata casa di proprietà. Nella sostanza era un patto di futura vendita, trasformato successivamente in un piano di riscatto, con ipoteca sull’immobile da estinguere con il pagamento delle rate. Era l’uovo di Colombo che ha fatto la fortuna del programma fanfaniano che ha contribuito in maniera incalcolabile al consenso politico.
L’iniziativa aveva anche il sapore di una di quelle sfide impossibili che invece il nostro Paese è stato in grado di vincere, riuscendo a realizzare 2 milioni di alloggi economici, un vero miracolo che è stato raggiunto con la sola concessione di una proroga del programma al 1963, rispetto all’iniziale termine di sette anni. Un risultato straordinario che fa anche capire perché il “piano Fanfani”, a distanza di tanti anni, resta nel patrimonio comune delle famiglie italiane. Una sfida che il nostro Paese avrebbe replicato in modo straordinario nel campo delle infrastrutture, con l’incredibile realizzazione – in soli 10 anni – dell’autostrada del sole tra Milano e Napoli.
Ma il piano Fanfani è stato un modello anche per la politica. Non a caso l’ex premier Silvio Berlusconi nell’annunciare, nel 2008 il suo piano nazionale per il social housing si richiamò espressamente a programma fanfaniano. E ancora oggi, lo stesso viceministro delle infrastrutture, Mario Ciaccia, è tornato a citare lo storico programma della casa a riscatto, giudicandolo adatto, “mutatis mutandis”, anche ai nostri tempi. D’altra parte la domanda di alloggi sociali resta altissima, almeno 600mila abitazioni popolari.
Una domanda elevatissima, che nel tempo non è stata soddisfatta dalla stagione dei fondi Gescal, cioè il meccanismo che ha sostenuto la produzione di alloggi sociali per vent’anni. Poi le ritenute Gescal (attivate nel 1978) sono venute a mancare: nel 1998 il rubinetto dei fondi si è chiuso e l’edilizia pubblica è diventato un tema di competenza delle Regioni. Prima ancora c’ stata la stagione della “167”, cioè la legge del 1962 che ha aperto la stagione degli espropri e dei Peep (Piani di edilizia economica e popolare), poi seguita dalle intraprendenti sperimentazioni di urbanistica negoziata Comune-costruttore.
Da ultimo, nel giugno 2008, è arrivato appunto il piano nazionale del social housing che però non soddisferà l’edilizia pubblica che in minima parte, essendo sostanzialmente indirizzato alle famiglie che sono in grado di pagare un affitto o un prezzo di acquisto, sia pure non di mercato.
Alla fine, però, dopo aver sperimentato anche le complesse alchimie finanziarie dei fondi immobiliari, si torna al piano casa, l’uvo di Colombo nato da un governo democristiano del dopoguerra.
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