L’Azienda dei trasporti pubblici veneziana, Actv, conta 2800 dipendenti, e nel giugno scorso ha comunicato ai sindacati la disdetta degli accordi integrativi, una manovra che la dice lunga sulle forme della democrazia sindacale in questo paese anche nelle aziende pubbliche. L’obiettivo era e rimane la riduzione del buco di bilancio e quindi, as usual, la diminuzione del costo del lavoro, l’incremento della produttività. La minaccia neppure velata era quella del ricorso ai licenziamenti se un accordo non fosse stato raggiunto.
Il tavolo di trattative che si è protratto fino ad ottobre ha partorito il classico accordo sindacalmente definito difensivo con la riduzione del personale: 330 lavoratori tra navigazione, autobus e impiegati in varie mansioni, verranno “recuperati” tramite prepensionamenti, blocco del turnover e ricollocamento in altre aziende collegate con carenza di organico, da qui al 2016. L’accordo firmato dall’azienda ha trovato il benestare delle istituzioni locali, di Fit Cisl, Filt Cigl, Uil Trasporti, Ugl Trasporti e Faisa Cisal. Un accordo che adesso dovrà passare al vaglio di un referendum tra i lavoratori da tenersi martedì e mercoledì prossimo.
Ma come verranno garantiti i servizi? Come abbiamo già visto a fare le spese dei tagli al trasporto pubblico e alla sua definitiva aziendalizzazione sono sia gli utenti che vedranno diminuire il servizio in quantità e probabilmente in qualità e sicurezza sia i lavoratori che vedranno aumentare l’orario e i ritmi di lavoro. L’orario di lavoro degli autisti degli autobus aumenteranno da 36 a 39 ore settimanali a parità di salario, gli addetti in navigazione dovranno diminuire le pause con un peggioramento delle condizioni di sicurezza a causa della riduzione da 5 a 4 persone presenti sulle Grandi Unità. La presenza nei presidi di pronto intervento sarà diminuita, mentre gli impiegati in staff e struttura si vedranno tagliate 10 giornate di riposo all’anno.
Fin da giugno la mobilitazione dei lavoratori contro le decisioni aziendali è stata importante, fino ad arrivare allo sciopero dei sindacati di base di venerdì scorso. D’altra parte l’USB, è stato l’unico sindacato a ritirarsi dal tavolo delle trattative e a non firmare l’accordo. Per quanto gli iscritti al sindacato di base non superino il 7-9% della forza lavoro il malcontento presente fra i lavoratori è forte e venerdì scorso l’adesione allo sciopero nel settore automobilistico ha interessato l’ 82% del personale, mentre nella navigazione si è fermata al 66%.
Nelle assemblee che si stanno tenendo in vista del referendum della prossima settimana i rappresentanti dei sindacati firmatari sono stati attaccati e criticati dai lavoratori, che vedono in questo accordo l’ennesimo peggioramento delle proprie condizioni di lavoro, a fronte della mala gestione dei dirigenti dell’azienda, ma anche del comune di Venezia. Questi ultimi anziché investire nel rinnovamento dei mezzi e nella semplificazione della viabilità, che consentirebbero di rispettare i tempi di percorrenza e così le pause, migliorando la sicurezza per chi guida e per i passeggeri, hanno deciso di investire in nuove infrastrutture costose e inutili.
Le trasformazioni in senso peggiorativo delle condizioni di lavoro e dei servizi vengono spiegate dall’azienda come una necessità per far fronte al rosso di bilancio, da colmare per poter essere competitiva all’arrivo dell’assegnazione tramite bando dei servizi cittadini, come previsto dalle norme europee nei prossimi anni. Vale a dire della privatizzazione del servizio pubblico. Il Comune ha infatti garantito l’assegnazione ad Actv fino al 2016 del contratto per la fornitura del servizio di trasporto solo se l’accordo verrà approvato, mentre lo metterà a gara pubblica in caso contrario.
Le condizioni di deficit sono anche aggravate dal fatto che altri lavoratori e disoccupati non possono più permettersi un prezzo del biglietto sempre più alto, a fronte di un potere d’acquisto decrescente. Considerando che un biglietto da 60 minuti per i vaporetti, a chi non ha la carta Venezia, costa 7€, non pagare il biglietto sembra la risposta più immediata alle politiche che vogliono i servizi pubblici gestiti in forma di aziende di diritto privato con il pareggio di bilancio. Viene fatto passare quindi il messaggio (dai padroni ma purtroppo anche dal sindacato) che per colpa di chi non paga il biglietto (ossia chi già subisce le conseguenze della crisi) è necessario privatizzare, celando così di fatto che l’unico vero scopo è quello di rimpinguare ulteriormente i profitti dei padroni del “sistema-italia” sulla pelle dei lavoratori.
Questo attacco ai lavoratori e alla qualità dei servizi si maschera dietro scelte politiche presentate come leggi di natura. Dietro la “necessità” di trovarsi pronti per i futuri bandi dietro all’efficienza, agli “accordi storici per il bene dell’azienda” e dietro alla gioia di amministratori e dirigenti perché il trasporto pubblico continuerà a essere gestito in casa e pure al neutro adeguamento al contratto collettivo nazionale, c’è la volontà di riorganizzare il lavoro per un maggiore sfruttamento a partire dall’allungamento delle ore di lavoro e dall’aumento dell’intensità del lavoro, per rilanciare i profitti dei padroni del “sistema Italia”, più o meno direttamente.
Giornali, istituzioni e dirigenti lanciano il ricatto e la minaccia dei tagli lineari, cioè si licenzia un po’ random se l’accordo non dovesse essere approvato dai lavoratori, o sostengono dovrà farlo l’azienda che vincerà il bando di gara (che come al solito sarà un bando al ribasso).
Un referendum che suona come una farsa, come quello di Pomigliano e di Mirafiori qualche anno fa. La questione della parola data ai lavoratori di cui si beano molte delle organizzazioni sindacali si risolve in un’ulteriore beffa: chi vota per vedersi tagliato il proprio posto di lavoro?
I lavoratori però ben sanno che le cose non cadono dal cielo e che ogni passaggio, comprese le misure dispotiche come la recessione unilaterale da un contratto di lavoro e i licenziamenti dipendono anche dalla forza che essi sanno e sapranno mettere in campo non solo nel voto a un referendum ma nelle pratiche quotidiane. Se il no dovesse vincere si entrerebbe in una fase di lotta il cui esito non è scontato ma che aprirebbe la possibilità di non accettare come normale il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e potrebbe addirittura portare ad una vittoria dei lavoratori.
Fonte: http://www.clashcityworkers.org
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