I nostri lettori più antichi lo sanno bene: non disprezziamo affatto i contributi alla comprensione del mondo che arrivano dal di fuori del nostro “giro”. Anche perché siamo costretti a notare quanti siano ormai quelli che cominciano a vedere quel che anche noi vediamo. Magari non da ora,
E’ il caso di queste interessante sintesi realizzata da Alessandro Visalli, su http://tempofertile.blogspot.it/. Che coglie pienamente come l’attuale tendenza all’aumento della disegualianza crescente e strutturale sia in fondo l’habita storico che ha fatto esplodere anche “la lotta di classe dal basso”. Naturalmente – ma questo lo aggiungiamo noi – se si possiede anche una visione “dall’alto”, complessiva, dei processi storici (non solo delle evoluzioni sociologiche) in atto.
Una lettura da evitare per tutti i pessimisti e i rassegnati.
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Ritorna la lotta di classe?
Premesso che la lotta di classe non era mai andata via (ma solo si era nascosta nelle soluzioni tecniche del “pensiero unico” liberale), mi stimola a riflettere sulla sua possibile riemersione anche dall’altra parte (cioè anche dal basso e non solo dall’alto) un articolo intervista di Romano Prodi sul Corriere della Sera del 2 febbraio, e un articolo di Ilvo Diamanti su La Repubblica di oggi, 3 febbraio.
Il passaggio chiave dell’intervista di Prodi è la denuncia della “società senza lavoro”, nella quale il tessuto si separa in due sezioni distinte: c’è una piccola parte di detentori di reddito da capitale e lavoro, che sale e accede a maggiore concentrazione di ricchezza; c’è una massa di detentori di redditi da lavoro, a qualifica intermedia, che scende e accede al novero dei “nuovi poveri”.
Con questa frattura si perde il legame sociale, si sconnettono le cuciture che il novecento aveva faticosamente creato tra i “due mondi”, della metà dell’ottocento. Diventa possibile tornare alla lotta tra privilegiati e lavoratori (cioè alla rappresentazione della società tra chi produce e chi vive di rendita), che faceva da carburante alle lotte sociali. Torna la “questione sociale”.
Se le diverse parti della società sono troppo lontane, e se la speranza di ascendere è repressa e dispersa, con la distruzione della contiguità, con lo smarrimento dell’effetto imitativo (per cui potevo sperare di raggiungere il vicino, un poco più abbiente, e questi un altro ancora di più), si perde anche la reciproca comprensione. Non ci capiamo più tra di noi. Non abbiamo più interesse a parlare ed a avvicinare. Perderemo anche il carattere interclassista delle nostre città e territori, presi in una sempre maggiore polarizzazione.
Il rischio è che ogni piccolo gruppo si richiuda nel suo linguaggio, nella sua cultura, e veda come nemico il lontano e diverso. Questo rischio è acutamente percepito da autori come Bauman, e non si può che concordare.
La perdita della solidarietà interclasse (o inter-ceto, se preferite), e del tessuto relazionale molecolare, crea lo spazio per la lotta. Per la ricostruzione delle frontiere interne, a cui molti lavorano, e per l’indicazione del nemico.
L’inchiesta Demos-Coop, citata da Diamanti, è alquanto impressionante, per la velocità dei mutamenti. Se fino al 2006 il 60% ca. della società si sentiva “ceto medio”, ora è solo il 41%. Mentre si sentiva “ceto basso” il 30% scarso, mentre ora è il 51%. La maggioranza della società oggi si sente “ceto basso”. E questo è un dato psicologico che è difficile non considerare decisivo.
In base alla professione, il calo più consistente si ha per gli operai, che nel 2006 si sentivano “ceto medio” per il 60% e oggi solo per il 30%. Sono smottamenti di dimensione geologica. Ora il 25% dei liberi professionisti si sentono “poveri”, e il 51% dei lavoratori autonomi. In quest’ultima categoria c’è lo sfarinamento del consenso alla Lega Nord ed in parte alla ex-PDL. I lavoratori autonomi (loro imponente base elettorale) sono passati dal sentirsi per il 19% ricchi e 62% medi (e solo per il 18% poveri) ad una condizione in cui ricchi si sentono solo il 10% e medi solo il 38%. 1/3 di loro è passato dal sentirsi un ceto medio in ascesa a sentirsi povero. Questo è il bacino immenso, di rancore e sconcerto, che alimenta improvvisi scoppi d’ira come il Movimento dei Forconi e più meditati movimenti di opposizione come il Movimento 5 Stellle.
Anche la recente, violenta, polemica intorno al Blog di Grillo (con irripetibili post da una parte e scomposte repliche dall’altra), ed il suo stesso linguaggio molto spesso brutale ne è espressione; un linguaggio apparentemente spontaneo, ma accuratamente calibrato (nel gioco lanciare-smentire che è proprio del marketing comunicativo multilevel). Proprio questo linguaggio, questi sentimenti, questa esibizione, al di là del suo uso consapevolmente strumentale, segnala per me l’esito (appena avviato, ma già consolidato) della frattura che si apre da decenni, ma accelera nel nuovo millennio; quella tra i vincenti ed i perdenti nella nostra società.
E mi riferisco esattamente agli inclusi e soddisfatti (che restano sempre più minoranza) ed ai marginali, i precarizzati, quelli della terza settimana o del c/c sempre rosso. Tutta quella parte della società del lavoro che era classe media e non lo è più. La “jobless society”, i lavoratori poveri, i lavoratori medi (disegnatori, segretari/e, praticanti, cassieri, impiegati, bancari, persino trader e piccoli professionisti) che hanno visto erodersi nel tempo e sempre più velocemente il loro ruolo nella riproduzione sociale e nel circuito di valorizzazione.
Spiazzati dall’informatica, dalla meccanizzazione -robotizzazione, dalla prevalenza dell’immateriale, dalla finanziarizzazione, dalla disintermediazione che queste tecnologie rendono possibile, dalla concorrenza (anche nel contesto globale). Si tratta del grande tema della ineguaglianza.
Comincia a sembrare quel film di fantascienza, Elysium, in cui i ricchi ed immortali sono andati su una stazione orbitante ed i poveri (insieme ai robot) sono rimasti a terra.
Questo sentimento produrrà autostrade politiche a chi riesce a raccogliere questo sentimento e mutarlo in speranza. E’ evidentemente il gioco sottile e rischioso che conduce il M5S. Un gioco che fa parte anche dell’esercitare un linguaggio violento e identificativo. Un linguaggio da scontro. Chi ha seminato per decenni ineguaglianza e darwinismo sociale non può che raccogliere rancore. Chi è stato selvaggiamente espulso e vittimizzato, tenuto fuori dei cancelli delle ville dove scorre il punch, non può essere anche cortese ed educato, come un Lord inglese.
Sia chiaro, scrivo con molto dolore queste cose. Non auspico nulla, non desidero l’instabilità che potrebbe portare tempi ancora più difficili; anzi con tutte le forze desidero che si trovi una soluzione a problemi colossali, la cui enorme resistenza è chiara. Né penso che qualcuno possa per magia risolvere di colpo dinamiche così profonde e lunghe.
Ma bisogna assumere che stiamo andando in terre inesplorate (e piene di belve). Almeno avremo gli occhi aperti.
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