Lotta sindacale e lotta politica hanno sempre angustiato le notti insonni di tanti militanti. La distinzione teorica era in fondo semplice (da una parte l’azione nelle vertenze specifiche, dall’altra l’azione tesa a imporre leggi favorevoli o addirittura la conquista del potere politico), ma nella pratica i problemi erano infiniti, aggrovigliati, difficili da sciogliere.
Negli ultimi tempi – vent’anni – le cose si sono complicate ancora di più. Sindacati “concertativi” impegnati solo a difendere il proprio “ruolo politico” anche a costo di svendere diritti e salari; oppure sindacati conflittuali più o meno influenti in parecchie vertenze, ma senza alcun peso politico. E “partiti politici” in rapido disfacimento organizzativo, morale, ideologico, a favore di “contenitori” dominati da poteri forti (il Pd renziano rappresenta il precipitato di questo processo); oppure frazioni residuali fuori dai giochi elettorali, piccole sette identitarie, pulviscolo autorganizzato e via microscopizzando.
Il ritorno sulla scena dello scontro tra Maurizio Landini e Susanna Camusso non è però un bis in idem, una pura ripetizione. Dura da cinque anni, dai tempi del “modello Pomigliano” (Camusso avrebbe voluto che la Fiom firmasse “l’accordo”), ma le condizioni sociali e politiche – nel frattempo – sono completamente mutate.
Sappiamo dai giornali che Landini, con il mandato del Comitato centrale della Fiom, avanza la proposta di una “coalizione sociale” in grado di “far politica”, per ora non sul piano elettorale, ma su quello della promozione di mobilitazioni (il 28 marzo ce ne sarà una nazionale, a Roma), della promozione di referendum sul jobs act e altri misure “decretate” dal governo Renzi in accordo con Confindustria (ma sotto la benedizione dell’Unione Europea).
Sappiamo anche che la segreteria nazionale della Cgil – un organismo che Camusso ha costruito a sua immagine e somiglianza, circondandosi di “fedeli” – ha bocciato senza esitazioni la proposta landiniana; e che ieri la stessa Camusso ha incontrato il segretario della Fiom per chiedergli di “chiarire”, ovvero di fare marcia indietro, perché “Il bisogno di politica di Landini non può stravolgere la natura della Cgil. Noi non vogliamo diventare né i costruttori né i sostituti di movimenti”.
I due se ne sono dette di tutti i colori, restando ognuno sulle proprie posizioni. Al punto che la partecipazione della Camusso alla manifestazione del 28 è diventata impossibile (al di là delle formule diplomatiche con cui si presenta la marcia indietro).
Diciamo subito che questo è uno scontro vero, non una sceneggiata a beneficio di telecamere. Ci sono due idee di sindacato e di lotta politica che vengono rappresentate dai due leader contrapposti all’interno della Cgil. Il problema è che si tratta di due linee senza alcuna possibilità di vittoria, quindi sbagliate.
La Camusso, di fatto, punta a un recupero – sia pur depotenziato – della “concertazione”, quindi del ruolo politico che ha fatto del sindacato confederale, negli ultimi 30 anni, un pilastro della “politica dei redditi” prima e della “stagione delle riforme liberali” poi.
Landini, invece, punta a un recupero dei diritti che i lavoratori dipendenti vanno perdendo ormai a passo di carica (dall’art. 18 all‘agibilità sindacale sui posti di lavoro), a una difesa dei livelli salariali ormai in caduta libera (tra precarietà, ricatto, esternalizzazioni, ecc).
Sono linee molto differenti anche dal nostro punto di vista. L’obiettivo della Camusso non possiede alcun interesse generale, quelli di Landini fanno parte di un “ventaglio” più ampio, ma condiviso anche da molti altri soggetti.
Ma entrambe guardano indietro, a posizioni perdute, a condizioni non ripristinabili neanche agendo livelli significativi di conflitto (cosa che peraltro, specie per la Camusso, sono da escludere). E la Storia, sappiamo, va soltanto in avanti.
È cambiato il contesto, ripetiamo. Il centro della decisione politica si è spostato radicalmente – anche sul piano “ordinamentale” – dal governo nazionale alle “istituzioni europee”. Le riforme strutturali che si sono tradotte in jobs act, apprendistato, contratti a termine e presto investiranno anche il nodo della rappresentanza sindacale, sono un copia-e-incolla della “lettera della Bce”, inviata da Trichet e Draghi (nell’agosto 2011) ai governi Berlusconi e Zapatero (ricordate? C’era un premier progressista che si chiamava così…).
E’ da lì, da quell’ordine sovranazionale costruito sui concetti base dell’ordo-liberalismo (una linea di pensiero molto tedesca, nata addirittura negli altri ’30), che discende anche la marginalizzazione politica dei sindacati. Persino di quelli “concertativi” o “complici” (la definizione, ricordiamo sempre, è di Maurizio Sacconi).
Escluso dunque che si possa tornare indietro. Sarebbe impossibile anche per un governo “riformista estremo” di cui peraltro non si vede alcun prodromo.
Si può solo andare avanti, rompendo la gabbia costruita intorno e sul movimento operaio, le giovani generazioni, i precari, i pensionati e via elencando tutte le vittime della stessa politica economica (l’austerità). Ma bisogna aver chiaro contro chi bisogna combattere, le dimensioni e la qualità dello schieramento da mettere in campo, l’asprezza – prevedibile, tenendo presente la vicenda greca – dello scontro da attuare, la portata storica della trasformazione che va realizzata per rendere concreto un obiettivo apparentemente “normale” come il ripristino di diritti del lavoro e un salario dignitoso.
Prendiamo atto che fin qui Landini si è rivolto ad associazioni più o meno progressiste, scegliendole tra quelle più “presentabili” (Libera, l’Arci, Emergency, il movimento per l’acqua pubblica, ecc). E prendamo atto anche dei suoi inviti, per ora diretti esclusivamente alla sua destra (la Cgil, sostanzialmente). Un po’ poco, e un po’ inconsistente, come schieramento, per avvicinare obiettivi di quella portata, sopratutto contro un “nemico” di quelle dimensioni e con quel rifiuto programmatico del “confronto”.
Ci sembra insomma che in queste aree ancora non ci sia ben resi conto che il profilo previsto dall’ordo-liberalismo della Troika per un sindacato “utile” (per chi?) è davvero un altro. Quello schematizzato, per esempio, da Maurizio Ferrera in un editoriale sul Corriere della sera del 17 marzo: “Ciò che serve è una efficace (e «ragionevole») piattaforma comune (tra sindacati del Nord e del Sud Europa, ndr) per promuovere la crescita economica e l’inclusione sociale”.
Una piattaforma che tenga conto – confermandola – della giungla salariale europea unificando però le normative. Naturalmente al ribasso…
E’ secondo noi più che probabile che la Camusso, quando riuscirà a capirlo, si disporrà di buon grado alle opportune modifiche, raggiungendo Cisl e Uil.
Da Landini ci aspetterebbero risposte diverse. Ma le domande gliele abbiamo già rivolte.
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