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Melfi, la fabbrica del Jobs Act

Ora su Twitter Renzi fa concorrenza a Chiambretti pubblicizzando l’Alfa Romeo. Pochi giorni fa il presidente del consiglio era andato in visita allo stabilimento Fiat di Melfi facendo un po’ di selfie assieme a Marchionne e a personale selezionato, ma non abbastanza visto che una lavoratrice aveva rifiutato di stringergli la mano. Il capo della FCA e quello del governo sono da tempo sodali e lo stabilimento lucano del gruppo è diventato l’emblema della propaganda sulla ripresa grazie alla distruzione dei diritti del lavoro. La Fiat di Melfi ha annunciato un migliaio di assunzioni ed è così diventata l’immagine vincente del Jobsact. Un’immagine diffusa dal solito regime mediatico compiacente, dietro la quale però si nascondono il supersfruttamento del lavoro e l’aggressione permanente alla salute e alla dignità delle persone.

Ogni settimana quasi 200 lavoratrici e a lavoratori si recano in infermeria. Una parte lo fa per le contusioni dovute alle postazioni scomode e affollate, che fanno sì che le persone urtino frequentemente contro le scocche e gli impianti. Molte e molti altri invece si ricoverano perché manifestano sintomi di collasso provocati da eccessivi ritmi di lavoro.

Da un indagine fatta negli ospedali della regione risulta che da quando il lavoro è ripreso a pieno regime dopo la cassa integrazione, con peggiori ritmi di lavoro, le richieste da parte degli operai di controlli cardiologici sono aumentate in modo abnorme.

Altro che modernità, a Melfi si lavora secondo i più brutali canoni del fordismo dei primi del ‘900, con condizioni persino offensive per la dignità delle persone. In una postazione del montaggio, esattamente nel reparto motori, i due operatori sono costretti a lavorare uno sopra l’altro, fisicamente attaccati, anche se sono un uomo ed una donna…

Nella lastratura si lavora costantemente in un’ambiente viziato dagli odori e dai fumi provocati dai tanti robot che saldano i vari pezzi della scocca, disagio aggravato dal fatto che in tutta la fabbrica in questi mesi estivi il caldo è insopportabile. Anche perché l’azienda del munifico Marchionne, che nel 2014 ha intascato 60 milioni di euro in emolumenti e benefit, risparmia energia sui condizionatori d’aria, che sono stati lasciati spenti fino a che non sono cominciate le proteste.

Nel 2004, dopo ventun giorni di sciopero, per i lavoratori Fiat finirono le terribili turnazioni di sabato e domenica. Ora si è tornati a lavorare per tutta la settimana, per cui al peso dei rimi di lavoro insostenibili si aggiunge la cancellazione dei ritmi di vita, in particolare di quelli familiari, per donne e uomini in gran parte pendolari da lunghe distanze. Oltre che i collassi psicofisici ci sono così quelli di nuclei familiari, nei quali i figli piccoli son lasciati senza genitori il sabato e la domenica.

La grancassa mediatica ha molto tuonato per le centinaia di assunzioni con contratti precari realizzate per lanciare la ripresa produttiva. I giovani, in gran parte entrati attraverso i soliti canali meritocratici, cioè con raccomandazioni varie, sono stati sconvolti da come si lavora in Fiat. Avevano creduto alla propaganda sulla fabbrica moderna ultratecnologica dove si sarebbe maturata un’alta professionalità, e si sono trovati ammucchiati nella più brutale ed antica catena di montaggio. Diversi non hanno retto e hanno abbandonato.

Ma non c’è solo passività. Un nucleo di delegati e lavoratori della FIOM ha cominciato ad organizzare una dura e difficile resistenza. Scioperi contro i turni massacranti e gli straordinari, intervento sulle condizioni di lavoro, denunce. La fabbrica non era più abituata al conflitto perché il dominio dei sindacati complici, FIM, UlLM, Fismic, che hanno sottoscritto tutti i peggioramenti delle condizioni dai lavoro, aveva coltivato la rassegnazione.

Ma il nucleo FIOM, spesso neppure supportato dalla direzione nazionale, ha dato l’esempio ed ora sui ritmi alla Charlot cominciano a comparire contestazioni diffuse. Ci vorrebbe molto di più naturalmente, ma purtroppo la Fiat di Melfi è davvero una vetrina del paese, come sostengono Renzi e Marchionne. La vetrina di un paese ove si alimenta il senso comune secondo cui chi lavora è già fortunato e non ha null’altro da domandare, un paese ove proprio per questo continuano a comandare i peggiori governanti e i peggiori imprenditori.

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