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Anche in Germania la classe operaia non è più in paradiso

Lentamente, ma inesorabilmente, l’offensiva del capitale multinazionale – tramite le “istituzioni” della Troika – macina le condizioni di vita dei lavoratori dipendenti e dei ceti sociali meno abbienti. Ovunque. I casi più clamorosi sono quelli dei Piigs, naturalmente, con in testa la Grecia condannata a fare da esempio e spauracchio. Seguono a poca distanza Portogallo e Spagna, che non riescono a risollervarsi neanche a calci. Quindi l’Italia del Jobs Act, dei tagli alla spesa sanitaria e ora anche del divieto di sciopero.

Si salvavano, fin qui, i lavoratori dei paesi forti, la cui economia si era ripresa prima e meglio dal botto del 2007-2008, grazie al bonus dell’euro (la moneta unica favorisce per definizione i territori e i capitali a più alta composizione organica e tecnica) e allo strabismo volontario dell’Unione Europea (che chiude da anni entrambi gli occhi sull’eccesso di deficit francese e sul complementare surplus tedesco).

Ora è finita. Rotta da anni qualsiasi possibilità di collegamento virtuoso – cioè: conflittuale – tra lavoratori di diversi paesi, isolati in ognuno di essi da un lato i “garantiti” e dall’altra i “precari” per poi riunificarli tutti sotto la comune condizione di precarietà a basso salario e zero diritti, ora parte l’attacco al “centro”. Ossia alle condizioni di vita e salariali del lavoro dipendente tedesco.

Alla fine della scorsa settimana la Confindustria tedesca ha infatti chiesto ufficialmente al governo di frau Merkel l’abolizione del limite orario quotidiano di otto ore. Questo limite è sancito da una legge che la Bundesvereinigung der deutschen Arbeitgeberverbände (Bda) chiede di cambiare il prima possibile.

Anche in Germania gli industriali non sono dei cretini e non illustrano la propria richiesta in termini che sarebbero immediatamente inaccettabili anche per sindacati più che corporativi come quelli teutonici. La cancellazione del limite giornaliero, infatti, viene richiesta nell’ambito di una “flessibilizzazione”, fermo restando un limite settimanale. «Per guadagnare più spazio di manovra e per rispondere meglio alle necessità aziendali, la legge sull’orario di lavoro dovrebbe prevedere un limite massimo settimanale al posto di quello giornaliero».

E siccome a ogni padrone piace esagerare, il documento presentato dalla Bda spiega ce questa “riforma” permetterebbe addirittura «una migliore conciliazione fra lavoro e famiglia». Come Renzi, Poletti o Sacconi dicono sempre: “lo facciamo per il vostro bene”.

Per ora siamo alle schermaglie iniziali. La reazione del sindacato – tanto per far capire la logica con cui ragiona da quelle parti – è negativa, ma Reiner Hoffmann (segretario generale della Dgb) non si trincera dietro i diritti dei lavoratori dipendenti, bensì dietro l’efficienza economica: «Spacciano per moderno qualcosa che danneggerebbe l’economia: tutti gli studi mostrano che dopo otto ore al lavoro la produttività diminuisce molto, qualunque sia la mansione che si sta svolgendo»

Il problema dell’orario, in Germania, è come dappertutto un falso problema. I contratti collettivi di lavoro – là dove esistono, e non è il caso dei “mini job” che hanno precarizzato già un’intera generazione – prevedono in genere 35 ore settimanali. Ma «Il 57% ha un orario settimanale superiore, pari a 37,7 ore».

L’imbarazzo del governo è relativo. In pratica soltanto perché il ministro del lavoro è una leader dell’Spd, Andrea Nahles, che comunque non ha affatto chiuso la porta a possibili modifiche della legge. Semplicemente l’ha rinviata a un “libro bianco”, naturalmente onnicomprensivo di tutte le necessarie riforme del mercato del lavoro tedesco, da mettere a punto nei prossimi mesi.

Tutta la discussione è infatti condizionata dagli sviluppi delle trattative per il Ttip, che punta a fare di Nordamerica e Unione Europea un mercato unico, con regole ovviamente diverse e peggiori di quelle attuali, sul modello anglosassone.

Ma c’è un orizzonte temporale ancora poco indagato che minaccia da vicino “il paradiso” in cui la classe operaia (in senso lato: tutto il lavoro dipendente) era convinta di vivere: l’entrata in produzione dell’automazione integrale di molte fasi del ciclo produttivo. Suonano ancora nella mente le parole tranquillamente minacciose pronunciate meno di un anno fa da Horst Neumann, capo del personale della Volkswagen: “Nei prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone; non verranno rimpiazzate“. Per una ragione molto semplice: “Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore ai 40 euro all’ora, nell’Europa dell’est sono 11, in Cina 10”. “Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di sfruttare questo vantaggio economico”.

Gli stessi “imprenditori” che si preparano a far produrre quasi solo i robot si preoccupano, oggi, di spremere più ore di lavoro da robot in carne e ossa.

Quale futuro pensate che ci stiano preparando?

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