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Gruppo TIM : Premio di risultato 2017 una vittoria di …Pirro

Come già dichiarato nei nostri comunicati precedenti, USB ribadisce la propria netta contrarietà ad aumenti salariali corrisposti in “Welfare” che, come in questa occasione, è una vera e propria vittoria di Pirro in quanto strumentale e usata per abbindolare i lavoratori, ben intuendo la direzione imboccata congiuntamente dai sindacati complici e azienda, con l’abbaglio di pagare meno tasse.

Da tempo i vincoli europei di bilancio hanno imposto all’Italia un diffuso e costante spostamento delle risorse pubbliche dai fabbisogni delle famiglie (servizi di istruzione, sanità, trasporti) e dei lavoratori (diritti, salari, pensioni) all’obiettivo del rientro nei parametri europei, drenando risorse finanziarie sotto forma di sgravi contributivi e incentivi fiscali a vantaggio dei datori di lavoro, sostenendo politiche di riforma del lavoro, con lo spostamento di quote di salario fisso verso quello variabile, nel nome della produttività.

In questo contesto, l’accordo sul PdR e la conseguente modalità di “elargizione” ai dipendenti TIM è in perfetta sintonia con questa tendenza. Partendo da questo presupposto e nel ricordare che il “premio di risultato” è in realtà salario, anche se in forma variabile, con questo accordo anziché lottare per avere aumenti salariali significativi e recuperi di tre anni di vacanza contrattuale, redistribuire profitti che sono stati elargiti solo a manager e amministratori delegati di passaggio, ci si accontenta di vere e proprie elemosine che nascondono enormi vantaggi per le aziende.

Analizzando infatti le due tipologie di fruizione del PdR si evidenzia che:

  • ricevendo il PdR in busta paga, il lavoratore paga circa il 10% di imposta più il 9,19% in contributi previdenziali e l’azienda verserebbe la propria parte di contributi previdenziali che di norma sono più del 20%. C’è quindi un accantonamento a fini pensionistici e sul TFR.
  • di contro, scegliendo la fruizione del PdR in “welfare aziendale”, il lavoratore “risparmia” il 10% in imposta ma perde i versamenti previdenziali e di TFR che sono in carico all’azienda.

In altre parole per questi pacchetti welfare, l’azienda risparmia praticamente il doppio, facendoli pagare ai lavoratori sotto forma di riduzioni salariali e mediante la riduzione delle imposte con cui si finanzia il Welfare Sociale.

Rivolgendo lo sguardo al futuro, si può facilmente prevedere quello che ci si può aspettare dai sindacati firmatari nei prossimi rinnovi del CCNL: una parte degli aumenti, citiamo testualmente “il 7% onnicomprensivo di tutti gli elementi economici”, anziché andare in busta paga andrà direttamente nel Welfare Aziendale. E’ più che evidente che la strategia dei sostenitori della sanità integrativa e dei relativi fondi aziendali è quella di sostituire il Welfare universalistico con quello Aziendale. Sia la pensione che la sanità non devono essere più diritti universali ma una merce strettamente legata al posto di lavoro.

Mentre perseguono l’obiettivo dello smantellamento del Welfare universale, i sindacati complici vendono al lavoratore l’illusione di una conquista legata al rilancio della contrattazione. La dura realtà però è che con l’espansione del Welfare aziendale il nostro modello sociale somiglierà sempre di più a quello degli Usa, con lavoratori ricattabili e in guerra tra loro per uno stipendio sempre più misero e con  l’esclusione da ogni tipo di assistenza se si viene espulsi dal ciclo produttivo.

USB nella propria “ragionevole convinzione” ribadisce con orgoglio di essersi opposta a tale accordo che spinge i lavoratori verso un inarrestabile degrado del salario e delle condizioni di lavoro e ci porta verso una società sempre più ingiusta.

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