Da martedì 17 a giovedì 19 aprile tornano alle urne più di due milioni di italiani per elezioni di cui nessuno parla. Si tratta dei dipendenti pubblici – in realtà molti più di due milioni, esattamente 3.156.970, ma forze armate, dell’ordine e dirigenti non partecipano al voto – chiamati a rinnovare le loro RSU, le Rappresentanze sindacali unitarie, in un momento molto delicato per l’Italia e soprattutto per il pubblico impiego.
Dopo otto anni di blocco contrattuale, a febbraio sono stati infatti rinnovati tutti i contratti collettivi della Pubblica Amministrazione, con una marcia a tappe forzate imposta dal governo uscente alla ricerca di consensi elettorali e accettata da Cgil-Cisl-Uil-Ugl schierati a difesa della propria riserva di caccia.
I contratti si sono subito rivelati quel che i sindacati non firmatari, Unione Sindacale di Base in testa, avevano denunciato: una grande mistificazione, a partire dall’elargizione di poche decine di euro sotto forma di “elemento perequativo” che dal 1° gennaio 2019 – data di scadenza dell’accordo appena sottoscritto – scompariranno dalle buste paga.
Un trucco in chiave elettorale che però non ha avuto alcun effetto sui risultati delle politiche di marzo. Anzi, ha contribuito severamente a punire il PD che aveva studiato e imposto il marchingegno varato a tappe forzate all’Aran tra gli applausi dei sindacati concertativi.
Questi ultimi da martedì affronteranno dunque un test severo, nonostante abbiano cercato di blindare le proprie rendite di posizione con lacci e lacciuoli stretti intorno alle norme che regolano la rappresentatività sindacale.
L’Unione Sindacale di Base sarà largamente presente nei seggi, si tratti di scuole o ospedali, di ministeri o regioni, di enti previdenziali o di ricerca, di vigili del fuoco o autorità indipendenti affinché anche tra i dipendenti pubblici parta una nuova stagione sindacale in difesa dei diritti, per il miglioramento del trattamento economico e per una pubblica amministrazione schierata dalla parte dei cittadini.
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