Da giorni è in corso una campagna mediatica – a proposito delle “morti sul lavoro” – la quale gronda ipocrisia e dosi massicce di cattiva coscienza. Dai grandi network informativi della comunicazione globale all’icona nazionale Mattarella, dai Vescovi a Confindustria, da Landini all’ultimo vigile urbano tutti hanno, improvvisamente, scoperto che di lavoro si muore.
Certo le cifre (quelle ufficiali) sono numeri da vera e propria guerra. E’ stato certificato che solo dall’inizio del 2019, nella nostrana Italietta, si è giunti ad oltre 700 morti escludendo feriti e mutilati che sono oltre il migliaio i quali non vengono neanche conteggiati.
In realtà questo dato è destinato – purtroppo – a crescere perchè specie nei circuiti del lavoro nero e schiavistico (agricoltura ed edilizia, ricoperti in gran parte da forza/lavoro immigrata) molti omicidi sul lavoro vengono occultati e fatti passare o come “morti naturali” o “regolati/sistemati” attraverso una miserevole quanto triste ricompensa economica a qualche congiunto previo occultamento delle responsabilità.
Siamo, dunque, in presenza – e non da oggi o da solo da qualche anno – di una vera e propria patologia antisociale del modo di produzione capitalistico il quale, nella sua parossistica forma attuale vigente, è sempre più stretto tra fattori di crisi e dinamiche di selvaggia concorrenza. Una dinamica perversa che manifesta pienamente il suo carattere criminogeno, apertamente criminale e i suoi tratti antistorici e di profonda regressione!
Questo è l’assunto vero – non mistificato – da cui occorrerebbe partire per affrontare alla radice questa pesante distorsione capitalistica la quale ha assunto una tale frequenza temporale (la strage silenziosa e quotidiana nei posti nei cantieri, nelle officine e nei campi) tanto da non essere più percepita ma – paradossalmente – vissuta alla stregua di un qualsivoglia “fattore endemico” di questa schifosa società.
Del resto se escludiamo la (strumentale) grancassa mediatica di questi giorni che accompagna tale martirologio il tema dominante – da sempre – su questa questione è il silenzio, l’omertà, la connivenza e tutte le altre forme di occultamento ed opacizzazione delle responsabilità del padronato e dell’intera organizzazione capitalistica del lavoro.
Invece – in un contesto culturale e politico a tinte surreali come quello in cui siamo immersi – capita ascoltare le immorali esecrazioni del Presidente di turno e dei vari commentatori delle disgrazie altrui che ci ricordano questa tragedia, i lutti ed il dolore che provoca ed, addirittura, il danno comporterebbe per il sistema/paese. Il tutto esternato ad intervalli regolari, quando, magari, il numero complessivo dei morti cresce negli elenchi statistici o all’indomani di una qualche strage con un numero elevato di morti che suscita una attenzione in più.
Ma a dove erano questi necrofori quando i processi di ristrutturazione e di riconversione hanno sconvolto il lavoro, svalorizzandolo e mortificandolo oltre ogni soglia di tollerabilità?
Dove erano – questi paladini della cosiddetta etica del lavoro salariato – quando le organizzazioni sindacali complici e collaborazioniste firmavano la deregolamentazione di norme e procedure di sicurezza? Dove erano quando venivano accolti e sottoscritti, a tutti i costi, gli accordi che sancivano – come elementi della immanente modernità – il lavoro notturno per uomini e donne, l’abbassamento degli standard di sicurezza, di immisssioni nocive nell’ambiente e di esposizione a sostanze e processi lavorativi a rischio per la salute?
E, poi, dove erano i cantori dell’austerity – quella a tinte nazionali e/o europea – quando le politiche di tagli lineari, di tetti di spesa e di sacrifici necessari smantellavano le già limitate (e spesso conniventi) strutture preposte alla vigilanza delle norme di sicurezza? Dove erano e dove sono dinnanzi all’inanità dell’ INAIL, degli Ispettorati vari, delle ASL e delle altre articolazioni che dovrebbero controllare e perseguire gli abusi sulla salute e sulla vita dei lavoratori?
E’ evidente che siamo di fronte ad un complesso ingranaggio il quale può essere solo riformato e messo in condizione di funzionare, almeno, in una maniera più civile attraverso una sostanziale riduzione del danno. Già una decisa azione culturale, politica e sindacale in tale direzione non sarebbe una cosa da poco e necessiterebbe di una diffusa ed articolata mobilitazione che si scontrerebbe con un atteggiamento padronale (legale ed illegale) non disposto ad accogliere limiti e controlli alla icontinua sete di profitti e di affari.
Non è un caso che in ogni consesso i rappresentanti della razza padrona, non perdono occasione per invocare la richiesta di aumentare i tassi di produzione e la complessiva produttività del lavoro. Altro, quindi, dal varo di processi di innovazione tecnologica attenti alle condizioni di lavoro, alla diminuzione della fatica e dello stress oppure da una opportuna politica di orari plasmata sulle esigenze dei tempi di vita e di riproduzione sociale dei lavoratori.
Appaiono, allora, icone stucchevoli le dichiarazioni di cordoglio per le vittime di questi omicidi e sono irritanti le celebrazioni e le passarelle mediatiche mentre il sangue dei lavoratori continua ad essere versato al Sud come al Nord del paese e in qualsiasi comparto dell’infinita gamma con cui si configurano le forme del supersfruttamento capitalistico.
La rabbia per quanto avviene ogni giorno è forte, lo sdegno spesso è contenuto nel dolore e nei lutti individuali e il sentimento dominate che si afferma – nei posti di lavoro e nella società – pare essere la rassegnazione o il voltarsi dall’altra parte. E’ anche accaduto che qualche padrone che è stato giudicato dalla Magistratura e riuscito – di riffa o di raffa – a farla franca.
Queste morti, però, proprio perchè non sono una anomala disgrazia o un incidente una tantum ma un fattore costitutivo e permanente del capitalismo ci segnalano – per quanto in forma indiretta, distorta e drammatica – che questo sistema ed organizzazione sociale è al capolinea della storia della specie umana.
Spetta, allora, all’umanità lavoratrice, nella generalità dell’ attuale composizione di classe, decidere ed assumere la consapevolezza collettiva della rottura e della necessità dell’alternativa di società. Tutto il resto è puro cordoglio ed evanescente fuffa destinata a dissolversi sotto il peso della dura realtà dei fatti. Uno compito immane sicuramente, ma l’unico socialmente utile!
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