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“Smart working” senza accordi su tutta Italia, a che pro?

«La modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020, dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti».

Si apre così l’articolo 4 – “Ulteriori misure sull’intero territorio nazionale” – del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) pubblicato in Gazzetta ufficiale il primo marzo scorso e diramato oggi da un nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

La possibilità unilaterale da parte del datore di salario-spesso-da-fame di poter far lavorare il proprio dipendente da casa anche in assenza di accordi individuali viene così estesa su tutto il territorio nazionale, e non più circoscritta nelle zone più colpite dai contagi del coronavirus.

Un’estensione che trova giustificazione solo nella logica di voler approfittare delle effettive complicazioni create dal Covid-19, per sperimentare misure di divisione e ulteriore individualizzazione dei luoghi di lavoro (così come di quelli della formazione). Una logica che vede dunque di nuovo la “classe dirigente” del paese (eufemismo, visto il livello delle “tanto da loro amate competenze” che dimostra ogni qual volta è chiamata ad affrontare una questione politica dirimente) nuovamente supina al prenditore di turno, che sia la borghesia “europea” organizzata intorno all’asse franco-tedesco nelle richieste di austerità, che sia quella nostrana che del taglio dei salari ha fatto il proprio mantra di profitto.

Sull’applicazione dello smart working pur in assenza di contrattazione individuale o sindacale si erano già espressi in maniera favorevole e corale i maggiori confederali del paese la settimana scorsa. La Cisl aveva addirittura preso la palla la balzo per lanciare l’azione sindacale al fine di «promuovere l’utilizzo di questo strumento in quante più aziende possibili», e non solo in quelle medio-grandi nei quali è per ora maggiormente diffusa questa modalità.

Puntuale come gli orologi svizzeri, i maggiori confederali si dimostrano “reattivi” ogni qual volta c’è da rimboccarsi le maniche  per la segmentazione e l’arretramento della forza contrattuale della classe lavoratrice, in ossequio a quel mantra odioso che vede nella necessità di una collaborazione proficua, basata sui “medesimi interessi” tra il padrone (in quest’occasione rappresentato dalla Stato) e il lavoratore, la stella cometa da seguire.

Ma come il “né destra né sinistra” finisce sempre per supportare la parte conservatrice, l’“armonia tra Capitale e Lavoro” favorisce solo il primo termine.

In un passaggio storico nazionale caratterizzato dalle  difficoltà economiche certificate dai maggiori organismi internazionali (nonché dai portafogli delle famiglie), le quali si manifestano negli oltre 150 tavoli di crisi industriali aperti su tutto il territorio, e nel giorno in cui l’Istat certifica i primi effetti sul mercato del lavoro del corona virus (a gennaio, giù l’occupazione, su inattività e disoccupazione), dare ancora manforte all’attacco padronale nei confronti del mondo del lavoro è una follia neoliberale che la storia sta sancendo come fallimentare.

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