Non c’è limite alla ferocia, è risaputo. Le prese di posizione dopo la sentenza d’appello sull’uccisione di Stefano Cucchi stanno facendo salire a galla i liquami mentali peggiori. Sempre esistiti, naturalmente, ma per alcuni decenni confinati al “foro interno” o alla pelosa omertà tra “colleghi”.
Prendiamo quest’altro sindacatino corporativo di polizia, che evidentemente ha temuto di essere scavalcato a destra dal Sap (https://contropiano.org/malapolizia/item/27255-sentenza-cucchi-il-sap-pretende-l-impunita-perenne).
Il suo segretario, Franco Maccari, ha emesso la dichiarazione che segue:
« Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo, perché a dire la vera verità le morti realmente violente che oltre tutto non hanno trovato giustizia né responsabili a cui far pagare il conto sono ben altre. Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». «È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita comincino ad assumersi le proprie responsabilità».
La prosa è scomposta in modo imbarazzante, ma il senso si capisce egualmente. In pratica, dopo un appello al necessario “garantismo” (“Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo”), il signore in questione ripete quel che già aveva detto il Sap (Stefano Cucchi sarebbe morto perché tossicodipendente, non perché pestato dalle guardie e mal soccorso dai sanitari), aggiungendovi quel “tocco personale” utile a farsi notare di più: “se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia”
La sequenza logica – riconosciamo che scomodare la logica può sembrare eccessivo – è dunque la seguente: Cucchi è morto perché si drogava, e se si drogava è colpa della famiglia, noi sbirri non c’entriamo niente. Anzi, non ci sono neanche dei “colpevoli da cercare”. Punto e basta.
Quindi, quel corpo stracolmo di lividi non starebbe ad indicare – su questo ci sono certezze sia giudiziarie che mediche (https://contropiano.org/malapolizia/item/26734-la-morte-di-stefano-cucchi-un-testimone-e-una-perizia) – un pestaggio selvaggio “ad opera di ignoti” (comunque agenti delle varie polizie che lo hanno avuto in custodia finché era in vita, in quanto detenuto), ma soltanto imprecisati “problemi familiari”. Non consiglieremmo a nessuno di rivolgersi a uno psicologo formato in questa scuola di pensiero…
Ma lasciamo da parte la pretesa di esercitare liberamente la ferocia sui prigionieri più deboli (qualcuno ha mai sentito parlare di botte in carcere a Totò Riina?), e ritorniamo per un attimo sulla sentenza d’appello.
Il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, ha chiesto di fermare la “gogna mediatica” dei giudici sotto la sua direzione, responsabili dell’assoluzione generale degli imputati, perché:
«Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. È quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta».
Nulla da eccepire in linea di principio. Però. Senza voler mettere alla gogna i giudici d’appello, tutta la vicenda processuale sull’uccisione di Stafano Cucchi è giudiziariamente e amministrativamente uno scandalo.
Vediamo perché. Stefano Cucchi era detenuto. L’amministrazione penitenziaria conosce gli “stati di servizio” di tutti gli agenti entrati in contatto con Stefano in ogni ora della sua detenzione (peraltro breve, nel periodo che ha preceduto la morte; insomma, non è un’indagine troppo complicata da fare). Altrettanto vale per l’amministrazione dell’ospedale Pertini, che oltretutto ha dedicato un piccolissimo reparto isolato proprio al trattamento dei detenuti; pochi medici e pochi infermieri, insomma. E anche qui con orari, date, firme sulle cartelle cliniche, medicinali somministrati, analisi e interventi effettuati, ecc.
Qualcuno potrebbe ricordare l’ipotesi che Stefano sia stato picchiato nelle celle d’attesa del tribunale di Roma. Ma anche in questo caso hanno avuto a che fare con lui soltanto carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Di cui l’Arma e l’amministrazione penitenziaria conoscono nomi, orari di servizio, turni, rapporti.
Cosa vogliamo dire? Che in un “ambiente chiuso” e totalmente controllato come un carcere, comprese le limitate “uscite autorizzate” (tribunale e ospedale), non c’è un solo attimo in cui Stefano – come ogni altro detenuto – non sia stato tenuto sotto osservazione. E non c’è “osservatore” che non sia stato a sua volta registrato in ogni attimo.
Ammettiamo dunque, per ipotesi, che i giudici d’appello abbiano le loro ragioni, e non ci siano negli atti sufficienti prove per condannare quei nomi che dovevano giudicare. Ma se i “nomi giusti” o le prove non vengono fuori è perché le amministrazioni di controllo – Ministero di grazia e giustizia e arma dei carabinieri, in primo luogo – si rifiutano di metterli integralmente a disposizione degli inquirenti. Fin dal giorno in cui è stata aperta l’inchiesta.
E nessuno può dire che queste amministrazioni – per potere e pratica storica – non siano in grado di “inquinare le prove”.
E’ del resto questa la domanda fondamentale che sta ponendo la famiglia di Stefano: “la Procura di Roma ha fatto davvero tutto per raggiungere la verità? e, se ha trovato ostacoli, da quale parte sono stati posti?
Domani mattina, lunedì, tutta la famiglia Cucchi – padre, madre e sorella – si presenterà davanti alla procura di Roma con maxi-cartelloni raffiguranti Stefano. “Andremo solo noi tre – ha detto Ilaria – senza alcun sit-in, presidio o altro. Vogliamo far vedere come Stefano è morto e le condizioni con le quali ce lo hanno riconsegnato”.
Chiederanno anche un incontro col Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone (arrivato soltanto nel 2012, molto dopo i fatti e la prima inchiesta). “Voglio chiedere al dottor Pignatone – dice Ilaria – se è soddisfatto dell’operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato, e contro mio fratello, ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano”.
La famiglia Cucchi, infatti, prepara un’azione legale nei confronti del ministero della Giustizia, presumibilmente per la “scarsa collaborazione” offerta durante le indagini e in ogni caso per “responsabilità oggettiva”.
L’avvocato Fabio Anselmo ha spiegato infatti che “intraprenderemo anche un’azione legale nei confronti del ministero affinché si possa riconoscerne la responsabilità rispetto alla morte di Stefano”. Secondo la difesa, da entrambi i processi emergerebbe che comunque un pestaggio nelle celle del Tribunale c’è stato e quindi si chiama ora in causa il ministero della Giustizia affinché riconosca la sua responsabilità dal punto di vista di un risarcimento danni.
L’altro passo sarà un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
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