Sono passati dieci anni da quella maledetta mattina in cui quattro individui in divisa hanno deciso di togliere a suon di botte la vita ad un ragazzo appena diventato maggiorenne. Questi individui in divisa, dopo aver scontato una parte della pena di tre anni e sei mesi in carcere (la maggior parte dei quali indultati), sono di nuovo in servizio.
Perché ricordare tutto questo? Perché a dieci anni da una morte così insensata e crudele, interrogarsi su cosa sia cambiato e su cosa, chi si batte per arrivare ad avere verità e giustizia nei casi di malapolizia, abbia ottenuto?
Principalmente, perché ogni minimo passo, per quanto infinitesimo o simbolico possa essere, è un passo in avanti per i diritti individuali e collettivi, è un passo avanti per la tutela dei singoli contro gli abusi dello stato e del suo lato più violento, il braccio repressivo.
La vicenda di Federico ha aperto un vulnus nel precedente generale senso di impotenza e accettazione passiva di questi casi. I casi Cucchi, Uva, Magherini, Scaroni, Gugliotta, hanno avuto una forte rilevanza mediatica anche grazie al martirio di Federico e della sua famiglia. È grazie ad una tenacia e ad una costanza mai venute meno nel pretendere verità e giustizia per un figlio strappato in modo infame alla vita che molte altre persone, molte altre situazioni simili, sono emerse dall’oblio in cui altrimenti sarebbero potute rimanere relegate per sempre.
Il coraggio che ha avuto la famiglia Aldrovandi nel denunciare, nel non fermarsi alla versione preconfezionata fornita dalla questura, nel disvelare quella cappa di omertà, di depistaggi dettati da un corporativismo fascista che da sempre permea le forze dell’ordine e che rende nei fatti intoccabili e spesso impunibili i loro membri, ha dato una svolta a questi casi e a proposte riguardanti la democratizzazione e la “normalizzazione” delle FdO che erano impensabili solamente fino a pochi anni fa.
Come dimenticare quanto successe a Genova nel 2001 e quel che ne seguì? Il muro mediatico eretto a difesa dell’operato delle forze dell’ordine fu enorme e vergognoso. E così avvenne per ogni successivo caso di malapolizia.
E quindi chiunque subisca abusi, chiunque venga selvaggiamente pestato durante un banale controllo, chiunque muoia in carcere o in una stanza di una qualsiasi questura italiana, diventa improvvisamente un personaggio borderline: uno spostato, un alcolizzato, un tossico. E quel che è peggio è che anche le loro famiglie vengono messe sotto processo. Quello che hanno dovuto passare le famiglie di Carlo, Federico, Stefano, Giuseppe, Riccardo, e di decine di altri è inimmaginabile per chi non l’ha subito. E questo solo per voler legittimamente pretendere che lo stato, quello stato che dovrebbe essere al servizio dei cittadini, faccia giustizia.
Quanto è emerso dalla due giorni organizzata a Ferrara per celebrare il decennale della morte di Federico Aldrovandi apre molti spunti, talvolta con esiti contraddittori. Indubbiamente molto si è costruito in questi anni, grazie e attorno alla tenacia di queste famiglie. La nascita di associazioni come ACAD non può che aiutare a porre le basi perché questi episodi divengano sempre più rari e le condanne agli abusi di polizia sempre più frequenti ed incisive.
Ma, allo stesso tempo, è evidente quanta strada ci sia ancora da fare e quanti ostacoli, quante difficoltà si debbano superare.
È innegabile che ancora oggi, l’omertà e i depistaggi, per non parlare delle minacce contro chi ha il coraggio di denunciare e di uscire allo scoperto, costituiscano la normalità. E questo va di pari passo con l’impunibilità degli abusi commessi dalle forze dell’ordine.
Basta vedere quanto in questi anni la repressione si accanisca su militanti ed attivisti sociali e politici; pensiamo ai processi contro i No Tav, alle vessazioni e alle provocazioni che quotidianamente subiscono singoli attivisti, al trattamento riservato loro nelle carceri o agli infami provvedimenti come i fogli di via e i divieti/obblighi di dimora, misure figlie dell’epoca fascista che spesso costringono militanti e attivisti politici e sociali ad allontanarsi dalle loro famiglie, dalle loro città, dai loro affetti.
Se vogliamo arrivare ad una democratizzazione e ad una normalizzazione delle FdO, occorre aprire un discorso a 360° che si batta su più fronti: da una parte è necessario far emergere questi casi individuali e creare reti grazie alle quali possano emergere non solo le colpe dei singoli ma anche le storture del sistema nel suo complesso, dalle omertà ai depistaggi, alle minacce personali, alle campagne diffamatorie a mezzo stampa. Dall’altra è altresì fondamentale che ci si continui a battere e pretendere che l’Italia introduca nel proprio ordinamento il reato di tortura (cosa che viene sistematicamente rimandata dal 1988) e che le forze dell’ordine dispongano di numeri identificativi su caschi e divise.
Di tutto questo si è parlato nella due giorni in ricordo di Federico Aldrovandi, una due giorni non retorica o celebrativa, ma propositiva e dinamica, che ha saputo marcare il punto su quanto è stato fatto e su quanto sia ancora da fare per fare in modo che nessuna famiglia debba mai più piangere un figlio, un fratello, un padre a causa dell’intervento di presunti servitori dello stato.
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