In tutta questa storia c’è una sola certezza: domenica 12 gennaio Vakhtang Enukidze era vivo, sabato 18 è morto. Durante questi sette giorni l’uomo è rimasto sotto la custodia dello Stato. Prima nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, poi nel carcere di Gorizia e di nuovo nel Cpr. Come sia possibile perdere la vita a 38 anni, privati della libertà personale, dopo aver accettato il rimpatrio e godendo di buona salute dovranno stabilirlo le indagini.
Sebbene non sia chiaro cosa è successo in quella settimana, si inizia a capire ciò che sicuramente non è accaduto. Enukidze non è morto a causa delle conseguenze di una rissa con un altro recluso, come avevano sostenuto inizialmente alcune ricostruzioni apparse sulla stampa. Lo confermano le numerose testimonianze raccolte dal Garante dei detenuti Mauro Palma, entrato nella struttura detentiva lunedì scorso, e quelle ascoltate dal deputato di +Europa Riccardo Magi, che ha effettuato due visite ispettive, domenica sera e lunedì mattina. «In quella colluttazione Vakhtang ha avuto la meglio – ha affermato ieri Magi in una conferenza stampa alla Camera – Tutti confermano che ad essa è seguito un pesante intervento degli agenti. Circa 10. Dai racconti pare che uno di loro lo abbia colpito con l’avambraccio dietro la nuca e un altro con il ginocchio sulla schiena». Per comprendere questa scena è necessario riavvolgere i fili di quelle che la precedono.
Lunedi 13 Enukidze sarebbe dovuto essere rimpatriato. Senza scorta, perché l’operazione era concordata e non ritenuta pericolosa. Il giorno precedente, però, nel Cpr ci sono delle proteste, alcune suppellettili vengono danneggiate e tre persone fuggono. Enukidze partecipa, è agitato, anche perché non trova più il suo cellulare, unico strumento per comunicare con la famiglia in Georgia. Secondo la testimonianza di un recluso, pubblicata su Facebook da «No Cpr e no frontiere – Fvg», l’uomo sarebbe stato manganellato perché voleva continuare a cercare il telefono. Una volta in cella si sarebbe ferito allo stomaco con un oggetto. Il giorno seguente, visto lo stato emotivo e forse anche quello fisico del georgiano, il rimpatrio non avviene. Martedì nel centro ci sono nuovi disordini nel mezzo dei quali Enukidze si scontra con un nordafricano. Dopo il duro intervento degli agenti viene «trascinato via come un cane», dicono tre testimoni. Lo portano nel carcere di Gorizia, in attesa del processo per direttissima per aggressione.
La struttura è composta da 3 grandi celle di 8 posti. Il Garante spiega che per gli agenti non è semplice inserirlo in quel luogo. Segno che è agitato, ma ancora in qualche modo in forze. Giovedì 16 il giudice rimanda la direttissima e lo rilascia a piede libero, che in questo caso significa un nuovo trasferimento nel Cpr. Al rientro i compagni lo vedono molto dolorante. Con traumi evidenti. Non si capisce quanto è lucido. Venerdì accusa forti dolori allo stomaco, è frastornato. A Magi alcuni reclusi raccontano che Enukidze chiede l’intervento medico. Poi non riesce più a parlare. Durante la notte le sue condizioni si aggravano. Perde bava dalla bocca. Cade dal letto. La mattina dopo lo trasportano via in ambulanza. Poco dopo muore.
«C’è il rischio di un nuovo caso Cucchi – sostiene l’avvocato Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) – Per escluderlo va fatta un’indagine rigorosa». Gli strumenti per ricostruire i fatti sono quattro: i video delle circa 200 telecamere interne; i risultati dell’autopsia, che la famiglia della vittima ha chiesto di rimandare per nominare un perito di parte; i referti medici; le testimonianze. Su quest’ultimo punto c’è stato ieri un botta e risposta tra Magi e il procuratore di Gorizia Massimo Lia. L’esponente di +Europa ha affermato che quattro reclusi presenti al momento dei fatti con cui ha potuto parlare sono stati espulsi: uno prima della morte di Enukidze e tre (egiziani) nella notte tra lunedì e martedì. Il procuratore ha risposto che le persone sono state ascoltate prima dell’allontanamento dall’Italia.
Così, però, sarà ben difficile interrogarle nuovamente, qualora ce ne fosse bisogno, o farle comparire nell’eventuale processo. Cosa rilevante, visto che uno dei quattro sarebbe proprio l’uomo con cui Enukidze ha avuto la colluttazione. C’è poi da considerare il contesto di raccolta delle testimonianze. L’avvocato Schiavone sottolinea che, visto il coinvolgimento di alcuni agenti, le persone dovrebbero essere ascoltate fuori dal Cpr, in contesti in cui non siano possibili influenze o minacce, dirette o percepite. Si giocherà anche intorno a questi elementi di garanzia la possibilità di stabilire davvero chi ha ucciso Enukidze.
*da il manifesto
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