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Indignados. La strategia della stanchezza

Quando il diplomatico e scrittore Stéphane Hessel è arrivato in Spagna per presentare il suo libro Indignatevi!, niente faceva presagire che il titolo della sua opera più recente sarebbe servito per dare il nome a un movimento di protesta divenuto trasversale. Il vecchio scrittore dallo sguardo sagace, è stato a Madrid e Barcellona e in entrambe le città che stipavano all’inverosimile le sale in cui si svolgeva l’incontro, ripetevano la stessa domanda: che ne facciamo della nostra indignazione? Hessel è stato chiaro: «Mettete da parte l’indifferenza e ribellatevi».
Il libro, un opuscolo di 30 pagine, fa una diagnosi demolitrice della situazione attuale di fronte all’evidenza della lenta distruzione del welfare sotto i colpi della dittatura dei mercati, dell’assenza di regolazione dei sistemi finanziari e della capitolazione della classe politica davanti al neo-liberismo imperante. Il successo dei libri sovente è un effetto del bocca a bocca e questo è stato il caso di Indignatevi! Che si è convertito in un proclama e il suo autore nel referente di una società orfana di polene.
Qualche mese dopo, con le piazze piene di giovani il cui orizzonte più prossimo è la disoccupazione o di diventare «milleuristi», nome dato a quelli che guadagnano meno di mille euro al mese, i leader d’opinione più prossimi al potere parlano di Hessel e degli indignati con indignazione, come se lui, che fu il redattore della Dichiarazione universale dei diritti umani, fosse il colpevole di una crisi sorta dalla smisurata voracità di un potere finanziario incapace di dare un volto umano al denaro. Come c’era da aspettarsi, la crisi nata dalla speculazione ha finito travolgendo come una bomba a grappolo i settori sociali più sfavoriti: i giovani, la classe operaia e una parte importante della classe media. Perché per quanto siano per la maggior parte i giovani quelli che passsano le notti nelle piazze e le voci cantanti delle manifestazioni, nel movimento degli Indignati militano anche quelli che si sentono truffati da una democrazia che li ha lasciati indifesi e li ha convertiti in mere pedine o moneta di scambio davanti alle leggi del mercato cannibale che ha usato la scusa della crisi per ristrutturare ed eliminare tutto ciò gli impedisce di fare più profitti. Pià brutalmente rispetto ad altre crisi, il mercato si riaggiusta non perché registri perdite ma perché fruisce di meno profitti.
Era prevedibile che la situazione economica spagnoa prima o poi saltasse in aria. Se il governo Zapatero ha passato parte del 2008 e 2009 negando la crisi, tre anni più tardi il paese è immerso nella depressione, con più di 4 milioni di disoccupati e un orizzonte in cui l’unica prospettiva tangibile è l’imminente arrivo al potere della destra, spinta dalla massa di voti fedeli di militanti la cui ideologia si basa sulla legge del più forte, e sui voti di quelli che chiedono una soluzione purchessia di fronte alla situazione in cui si trovano. Zapatero glielo ha offerto su un piatto d’argenti. Con la Germania e la signora Merkel che controlla quella che per il momento sembra una partita a scacchi, Bruxelles ha imposto alla Spagna le misure per ridurre un debito che potrebbe collocarla vicino a un riscatto simile a quelli sofferti da Grecia e Portogallo. Le riforme colpiscono, per ora, il settore pubblico e il mercato del lavoro, così come reclamato dal settore finanziario. Si dice che un’immagine vale più di mille parole, e vedere il presidente del Banco di Santander, Emilio Botín, entrare in maniche di camicia al palazzo della Moncloa dove Zapatero inappuntabilmente vestito lo aspettava ai piedi della scalinata, è servito per renderci conto di chi comanda davvero in Spagna.
L’immagine di Botín è una brutta metafora. Una in più che dà ragione alla indignata ma pacifica sollevazione popolare chiamata Movimento 15-M, 15 maggio, in omaggio al giorno dell’occupazione della Puerta del Sol a Madrid. Si è molto parlato del 15-M e non c’è voluto molto perché apparissero storie fantasiose sulle origini di un movimento nato 3 o 4 anni fa attraverso le reti sociali. Un lento camminare per il mondo virtuale che ha finito per mostrarsi fisicamente con la presa degli spazi pubblici di Madrid, Barcellona e altre città già in allarme. E dopo 15 giorni, la società e i media hanno preso posizione, lasciando agli opinionisti la scelta di chi siano i buoni e i cattivi di un film che si presume lungo e doloroso.
Dopo la sorpresa iniziale, è curioso vedere il posizionamento dei portavoce del potere. Il governo catalano di Convergencia i Unió ha messo sul tavolo ragioni sanitarie ed estetiche per spiegare il tentativo di sloggiare i manifestanti accampati nella Plaza Catalunya. Con quella scusa la polizia regionale è entrata venerdì scorso nell’area controllata dal collettivo 15-M manganelli e armi alla mano. L’assalto è finito con un centinaio di feriti e una sensazione generalizzata di schifo davanti all’azione della polizia agli ordini del nuovo Consigliere regionale agli affari interni. Però in una città come Barcellona, così preoccupata per l’estetica, non sorprende che si utilizzino ragioni di immagine, in quanto quelle «acampadas» non fanno altro che fomentare una cattiva immagine della città agli occhi dei turisti.
Un altro tipo di critiche è quello composto dai leader che rimproverano agli insorti di non avere un programma con proposte concrete per fare di questa democrazia una democrazia reale. Il programma esiste ed è molto concreto. Proposte per la eliminazione dei privilegi della classe politica, contro la disoccupazione, per il diritto alla casa, per servizi pubblici di qualità, per il controllo delle banche, per un fisco giusto, per le libertà civiche e la democrazia partecipativa, e per la riduzione della spese militari.
Le proposte con i relativi stralci in punti concreti sono tutte reperibili in Internet. Fino a oggi, gli Indignati del 15-M sono riusciti a far arrivare il loro messaggio al di là dei confini spagnoli. La globalizzazione ha anche i suoi lati positivi. Restano però molti dubbi sul futuro che attende gli Indignati. Il movimento non si è mai proposto di lavorare fuori delle leggi della democrazia parlamentare, tuttavia, in cambio, esige passi che facciano del meno peggio dei sistemi politici una democrazia reale. Il carattere assembleare del gruppo e la mancanza di un portavoce tuttavia renderà defficile la crescita del 15-M. I politici contrari ai postulati difesi dagli Indignati, e i media a loro affini, hanno avviato la strategia della stanchezza. Al contrario, molti di noi che si sentono, attivamente o passivamente, parte degli Indignati, ritengono necessario che il 15-M sfoci in un movimento politico. I partiti di sinistra ha teso loro la mano e si sono offerti di essere la loro voce in parlamento. Troppo tardi. Per sentirsi rappresentati dai partiti storici della sinistra, gli Indignati esigono da essi un mea culpa e la loro rifondazione. Se i partiti tradizionali non si rigenerano in profondità, gli insorti dovranni porsi seriamente il problema di giocare in modo autonomo nel campionato della democrazia formale per cercare di curare le malattie incistate in un sistema legato mani e piedi alle grandi majors economiche. E’ probabile che il 15-M finisca negli artigli del mercato, come capitò al love power e ad altre rivoluzioni pacifiche. E’ sicuro che il «5-M si è convertito in una finestra sulla vita per molta gente che aveva abdicato, però, per ora, è un’illusione non adatta agli scettici.
«Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini corrono dietro un pallone per 90 minuti e, alla fine, vince sempre la Germania», disse una volta il calciatore Gary Lineker. Cambiate la parola «calcio» con «democrazia», e vedrete che a vincere finisce per essere sempre lo stesso.
da “il manifesto” del 4 giugno 2011

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