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Rating tagliato. Inizia ufficialmente il declino degli Usa

In un comunicato, Standard & Poor’s ha motivato la decisione con «rischi politici» che a suo avviso corrono gli Stati Uniti. L’outlook, spiega l’agenzia di rating, è negativo e, quindi, un altro taglio potrebbe maturare nell’arco dei prossimi 12 o 18 mesi in mancanza di «correzioni solide». La decisione dell’agenzia di rating era nell’aria da tempo, nonostante l’accordo sul tetto del debito degli Stati Uniti faticosamente raggiunto e divenuto legge martedì scorso. E proprio il clima di confusione e tensione fra leader repubblicani e democratici al Congresso che ha preceduto l’accordo sul tetto del debito avrebbe indotto S&P al downgrade dalla AAA, il massimo, alla AA+.

È la prima volta nella Storia che gli Usa si vedono ridurre il grado di affidabilità che ora è inferiore a quello della Germania, della Francia o del Canada. S&P ha affermato che dopo le elezioni presidenziali del 2012 il peso del debito potrebbe essere ancora maggiore e quindi sono necessari maggiori aggiustamenti fiscali.

L’annuncio di Standard & Poor’s è arrivato al termine di un contenzioso con il Tesoro americano che, avendo esaminato la bozza della decisione, ha trovato errori per diverse migliaia di miliardi di dollari.

L’agenzia internazionale di rating Standard & Poor’s ha inviato la bozza della decisione al Tesoro alle 13.30, ore 19.30 italiane. Gli economisti del Tesoro l’anno esaminata e trovato che c’erano degli errori per migliaia di miliardi di dollari in seguito a come S&P teneva conto dei dati delle spese discrezionali del Congressional Budget Office, l’organismo indipendente incaricato di fornire analisi agli eletti. Il Tesoro ha replicato alle 16.00, ore 22.00 italiane. S&P ha comunicato il downgrade alle 20.20, ore 2.20 italiane.

Com’era logico, la decisione è stata comunicata a mercati chiusi, per dar tempo agli “investitori” di metabolizzare la novità. Ma è certo che la giornata i lunedì, per i famosi “mercati internazionali”, sarà la più difficile della storia. Può accadere semplicemente di tutto. Sul piano finanziario, infatti, questo downgrade elimina la certezza primaria: l’affidabilità degli Usa come creditore fa il paio con la sua sua potenza militare. Significa passare da un mondo (mal) governato (a favore di un paese per molte ragioni “privilegiato”) a un mondo non governato. Ossia imprevedibile con gli strumenti usuali dell’analisi politologica o economica in uso soprattutto tra gli editorialisti padronali. Basti pesare che – sul piano strettamente economico – gli Usa hanno rappresentato per luogo comune il paese “delle opportunità”, dove il capitalismo dimostrava le sue miglior qualità proprio perché “libero” di funzionare secondo la propria natura.

 

La risposta americana è molto minimalista. Il Tesoro ha contestato i calcoli di S&P, come detto. Mentre la Fed ha cercato di “rassicurare” a suo modo chi lunedì mattina dovra decidere che fare dei propri investimenti: “il downgrade di Standard & Poor’s non cambia le operazioni condotte tramite la finestra del tasso di sconto della Fed e le operazioni a mercato aperto”. La Fed ha anche sottolineato che il downgrade non ha implicazioni sul trattamento dei titoli di stato americani, Treasury, usati dalle banche.

 

Erano diversi mesi che qualcosa del genere era nell’aria. Anche le altre agenzie di rating avevano in vario modo “avvertito” che gli Usa non erano più quelli di una volta. Fitch aveva cosiderato l’accordo sull’aumento del tetto del debito «commisurato» al rating di AAA, ma con molti dubbi sull’immediato futuro. Moody’s aveva invece abbassato le prospettive degli Usa a “negative”. La cinese Dagong – fin qui considerata dai commentatori occidentali poco più che un’”imitazione cinese” delle agenzie “serie”, al puro e semplice servizio del governo di Pechino – esce invece trionfante, vedendo riconosciute molte delle ragioni che l’avevano portata a rivedere al ribasso il rating statunitense: una A sola. Ma anche S&P – con questa decisione – si toglie il marchio di “agenzia yankee che lavora a favore di Washington”. Ed è chiaro che questo smarcamento ha un valore storico: l’insieme dei capitali operanti in giro per il mondo non considerano più gli Usa il proprio “porto sicuro”. Non c’è bisogno di essere maturi marxisti antimperialisti per vedere in questo momento l’inizio ufficiale del “declino dell’impero”.

Durissima ma quasi ironca la reazione della Cna, primo detentore dei titoli di stato american quelli divetati oggi meno “credibili”.

«I giorni in cui uno Zio Sam carico di debiti poteva tranquillamente sperperare prestiti illimitati ottenuti all’estero sembrano essere finiti». Così l’agenzia ufficiale di Pechino Xinhua commenta, senza mezzi termini, la decisione dell’agenzia Standard & Poor di togliere per la prima volta il rating tripla A al debito degli Stati Uniti. Nella nota si ricorda come «il Tesoro degli Stati Uniti abbia subito contestato questo downgrade senza precedenti», ma – si aggiunge – «al di fuori degli Stati Uniti molti ritengono che il taglio di rating sia un conto da tempo atteso che l’America deve pagare per la crescita del debito e per le miopi dispute politiche a Washington».

Pechino ricorda come «Dagong Global, una giovane agenzia di valutazione cinese, abbia già tagliato le obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti alla fine dell’anno scorso, ma la sua mossa è stata accolta arroganza e cinismo da parte di alcuni commentatori occidentali». «Ora – aggiunge la Xinhua – S & P ha dimostrato che il suo mologo cinese non ha fatto altro che dire una brutta verità agli investitori globali»

«La Cina, il più grande creditore dell’unica superpotenza del mondo, ora ha tutto il diritto di chiedere agli Stati Uniti di risolvere i suoi problemi strutturali di debito e garantire la sicurezza degli asset cinesi in dollari» continua la nota. E, conclude, «per curare la sua dipendenza dal debito, gli Stati Uniti devono ristabilire il principio di buon senso per cui si dovrebbe vivere all’altezza dei propri mezzi».

Una supervisione internazionale sulla questione del dollaro «dovrebbe essere introdotta e una nuova moneta, stabile e sicura come riserva globale può anche essere un’opzione per evitare una catastrofe causata da ogni singolo paese». È quanto si legge in un commento diffuso dall’agenzia Nuova Cina, a poche ore dal taglio del rating. Anche se le probabilità di un vero e proprio default sono minime, il downgrade di S&P è un altro «segnale d’avvertimento sulla sostenibilità di lungo termine delle finanze pubbliche degli Usa». Per secoli, «l’energia esuberante e innovativa ha sostenuto il ruolo dell’America nel mondo e mantenuto la fiducia degli investitori negli asset denominati in dollari. Ora, i debiti in crescita e la ridicola lotta politica a Washington hanno danneggiato l’immagine dell’America all’estero». È necessario «fare un serio esame di coscienza» per portare il Paese indietro rispetto «al potenziale finanziario abisso».

La risposta degli Stati Uniti al problema del debito è stata finora «arrogante». «Ma non ci vorrà molto tempo prima che scoppi la crisi del debito sovrano Usa». Lo afferma Guan Jianzhong, presidente dell’agenzia di rating cinese Dagong.

Il presidente dell’agenzia cinese ribadisce l’opposizione a eventuali iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve: «Un terzo round di quantitative easing – spiega – significherebbe esportare il debito degli Usa, stampando una quantità eccessiva di dollari: sarebbe un pò come placare la sete bevendo veleno».

D’altronde, sottolinea Guan, se un paese «emette la valuta di riserva internazionale, gli spetta il compito di mantenerla stabile, perchè una svalutazione ad arte significa violare l’interesse dei creditori, e questo costituisce un default de facto». «Le altre agenzie – ammette – ritengono che chi ha questo diritto sulla valuta internazionale non potrà mai fallire, dal momento che potrà sempre ripagare il debito stampando più carta moneta».

Invece, per Guan «per gli Stati Uniti il peso del debito è già insostenibile: continuano a contare sul diritto di emettere dollari per mantenere una continuità nel rapporto fra debitore e creditore». «Ma alla fine – commenta Guan – il biglietto verde verrà abbandonato ed allora gli Stati Uniti non potranno più chiedere prestiti. E quel che è peggio, le banconote in circolazione diventeranno carta straccia». «A giudicare dalla situazione attuale – è la conclusione dell’economista cinese – non ci vorrà molto tempo prima che scoppi la crisi del debito sovrano degli Stati Uniti».

«La forza trainante dell’America si è basata su un modello economico fondato sul consumo futuro, mediante la richiesta di prestiti. Ma questo tipo di crescita in poco tempo ha trasformato l’America non solo nel paese più ricco del mondo ma anche il più indebitato». Guan Jianzhong ricorda come «il debito totale del settore pubblico e privato degli Usa ha raggiunto i 50.400 miliardi di dollari, con un debito pro capite di 164 mila dollari, laddove il Pil pro capite è di soli 48713 dollari».

Certo, aggiunge, «penso che alcuni investitori continueranno a investire in buoni del Tesoro Usa anche se sono rischiosi, perchè attratti dagli alti rendimenti: è come una scommessa». Oggi però, lamenta Guan, «le risorse di credito degli Usa si sono quasi esaurite e il fatto che il governo stampi carta moneta per comprare e vendere i propri buoni del Tesoro rivela quanto sia disperata» la situazione.

«L’economia americana è come una locomotiva che ha un disperato bisogno di carburante: ma per porre rimedio ai propri problemi possono agire su tre fronti: primo, trasformare il proprio modello economico e tornare a sviluppare una economia reale per creare una vera ricchezza; secondo, rivedere la strategia globale e tagliare le spese; terzo, abbassare il livello di consumi interni e di welfare». «Insomma – è l’invito dell’economista cinese – l’America deve mettere sotto controllo la propria spinta a consumare, altrimenti presto o tardi assisteremo al declino del più grande impero mondiale».

Nel recente passato, gli americani «dopo avere esaurito le risorse creditizie reali, ne hanno create altre ‘virtualì, come e derivati finanziari e gli hanno assegnato la tripla A. È la bolla – ricorda Guan – che ha scatenato la crisi finanziaria».

Rivendicando la scelta di abbassare il giudizio sugli Usa, quando le altre agenzie insistevano per mantenere la tripla A, Guan sottolinea come si tratti di una questione di «standard sul rating: noi insistiamo a evidenziare i rischi collegati ad ogni debitore, mentre le altre agenzie li misurano sulla base di un approccio ideologico, politico ed economico occidentale. Dagong, per esempio, si sofferma sulla capacità dei debitori di creare ricchezza, ritenendola la base per emettere e ripagare il debito».

Il debito Usa è del resto un problema soprattutto di Pechino e Tokyo, oltre che di Barack Obama. La Repubblica Popolare Cinese e il Giappone, secondo i dati aggiornati al maggio scorso pubblicati sul sito del Dipartimento del Tesoro Usa, detenevano circa il 46% dei titoli del Tesoro posseduti da investitori esteri alla fine del periodo considerato. E, anche se Pechino ha preso una posizione dura sulla questione, resta vero il detto attribuito a John Paul Getty: «Se devi alla banca 100 dollari, è un tuo problema. Se devi alla banca 100 mln di dollari, il problema è della banca».

Su un totale di titoli pubblici Usa detenuti all’estero di 4.514 mld di dollari a fine maggio, 1.159,8 mld si trovano in mani cinesi, e 912,4 mln in quelle del Giappone, i primi due creditori degli Stati Uniti. Le consistenze di Hong Kong, una regione amministrativa speciale della Cina, sono conteggiate a parte ma sono di tutto rispetto (121,9 mld di dollari) e, sommate a quelle della madrepatria e del Giappone, farebbero salire la percentuale di cui sopra al 48,6%.

Al terzo posto si posiziona il Regno Unito, che deteneva a fine maggio 346,5 mld di dollari di titoli di debito Usa. Al quarto posto figura l’aggregato dei paesi esportatori di petrolio (Ecuador, Venezuela, Indonesia, Bahrain, Iran, Iraq, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Gabon, Libia, Nigeria) con 229,8 mld.

 

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I ministri delle Finanze del G7, i sette Paesi più industrializzati, si consulteranno telefonicamente questa sera o domani per discutere della situazione dei mercati in una conference call. Lo rende noto una fonte diplomatica europea. L’annuncio di un incontro era stato dato ieri da Silvio Berlusconi, durante la conferenza stampa per spiegare le misure anticipate dall’Italia in risposta alle richieste della Bce che preme per riforme sul debito italiano. Stasera alle 20 ci sarà una telefonata fra Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico David Cameron, fa sapere l’Eliseo. Lunedì ci sarà invece nel pomeriggio un colloquio telefonico fra il premier Berlusconi e il presidente Obama.

Al centro dei colloqui, il declassamento del rating del debito degli Stati Uniti, che faceva del suo debito uno degli investimenti più sicuri al mondo e un pilastro della finanza globale.

In queste ore i leader mondiali sono preoccupati per i crolli dei mercati azionari dove sono in questa settimana sono stati bruciati 2,5mila miliardi di dollari. Le telefonate di oggi saranno solo il preludio di una serie di incontri che si terranno «a giorni» ha spiegato il premier Berlusconi per cercare un comune piano d’azione. Bisogna fronteggare la crisi sempre più diffusa dei debiti sovrani dell’Eurozona e gli Stati Uniti che stanno scivolando in una seconda depressione: i due spauracchi alla base delle giornate nere dei mercati azionari da New York a Milano. Per capire che in questo momento nulla riesce a invertire la tendenza e gli umori basta pensare che i dati di ieri sull’occupazione americana che si son rivelati migliori del previsto hanno dato una mano a Wall Street che però ha chiuso lo stesso constrastata. (da Il Sole 24 Ore on line)

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Qui di seguito una scheda Ansa sui vari giudizi sugli Usa dati al momento dalle agenzie di rating.

STANDARD & POOR’S: Il downgrade è stato deciso in seguito ai rischi politici negli Stati Uniti e riflette «la nostra opinione che il piano di risanamento non sia adeguato a quello che sarebbe necessario per stabilizzare il debito. Il downgrade riflette come l’efficacia, la stabilità e la prevedibilità della politica americana si sia indebolita in momento in cui è necessario affrontare sfide fiscali ed economiche. Il rating potrebbe essere tagliato ad AA nei prossimi due anni se i tagli alle spese saranno inferiori a quello che ci si è accordato o emergano nuove pressioni di bilancio che possano far salire il debito». – MOODY’S: Il 3 agosto l’agenzia ha abbassato le prospettive americane da ‘stabilì a ‘negativè. L’accordo sull’aumento del tetto del debito «elimina i rischi di un default»ha detto Moodys’ confermando il rating AAA. Gli Stati Uniti rischiano un taglio «se le prospettive deterioreranno significativamente» e «se i costi di finanziamento saliranno apprezzabilmente». – FITCH: Il 2 agosto l’agenzia ha detto che l’accordo sull’aumento del tetto del debito è «commisurato a un rating» AAA ed «è un primo passo importante ma non la fine di un processo per mettere in atto un piano credibile per ridurre il deficit a un livello che assicura il rating AAA per gli Stati Uniti nel medio termine». «Il debito americano raggiungerà il 100% del pil nel 2012 e continuerà a salire nel medio termine in modo non in linea con il mantenimento del AAA- dice Fitch – Gli Stati Uniti hanno ancora scelte difficili con cui confrontarsi». Fitch chiuderà la revisione del rating americano alla fine di agosto. – DAGONG: Dagong, la sfida cinese alle agenzie di rating occidentali, ha abbassato il giudizio sugli Usa di un gradino, da A+ ad A, ai livelli di Russia, Polonia (e uno in più dell’Italia), ma con l’aggravante dell’ outlook ‘negativò, come la Spagna.

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