Francesco Piccioni
POTERE D’ACQUISTO Le dinamiche mondiali nell’analisi dell’Ubs
Salari local, prezzi global
Retribuzioni italiane ferme, mentre i prezzi volano. Pechino rimonta in classifica, gli Usa perdono punti
C’è una banca che fa almeno una cosa buona. È la svizzera Ubs – spesso al centro dei paggiori intrallazzi della finanza odierna – che produce a scadenza regolare un pregevole studio (Price and earnings) che consente di capire qualcosa dell’andamento di prezzi e salari a livello globale, gettando luce sui misteri del potere d’acquisto nei cinque continenti. Una serie di fotografie scattate anno dopo anno che, messe insieme, fanno il film della globalizzazione.
I pigri media italiani ne hanno parlato solo per dire che Oslo è la città più cara del mondo, omettendo però di dire che i salari norgesi sono secondi solo a quelli svizzeri e danesi. E quindi, per chi a Oslo ci vive e lavora (tutt’altro discorso per i turisti con in tasca monete dal tasso di cambio sfavorevole) le cose – neonazisti stragiti a parte – non vanno poi troppo male.
Tutte le variabili sono state ridotte a una percentuale, in cui – per convenzione – New York è sempre punto di riferimento (100). Un retaggio di quando gli Usa erano il paese che pagava i migliori stipendi e i prezzi gli andavano dietro. Non è più così da un pezzo. Oggi ci sono sei città con salari migliori (erano 4 nel 2006), ma anche 13 con prezzi più alti (solo sei, allora), tra cui Singapore. E quindi ha perso solo un posto nella classifica del «potere d’acquisto».
L’Europa si presenta col ventaglio forse più estremo di situazioni e questo dovrebbe far riflettere sui problemi dell’«integrazione» molto più di quanto non siano capaci di fare i burocrati di Bruxelles e Francoforte o i nanerottoli della politica. A parte i pochi ricchissimi fuori dell’euro, nella classifica degli stipendi primeggia la Germania, con Monaco e Francoforte poco sopra l’80% di un salario Usa e Berlino 5 punti più sotto. A favore della capitale c’è però un livello di prezzi meraviglioso (il 64% di new York), tale da garantire un purchasing power quasi statunitense e migliore di quello londinese (dove a prezzi più alti corrispondono salari inferiori). Soprattutto, i berlinesi negli ultimi 5 anni hanno mantenuto le posizioni, mentre Londra ha smarrito e Parigi guadagnato il 2%.
E l’Italia? Segna scarti feroci tra corsa dei prezzi e stasi salariale. La retribuzione media di un romano è oggi il 49,8% di un newyorkese (quella di un milanese al 63,6), mentre i prezzi sono al 74,4 (68,9 a Milano). Nel 2006 i salari erano allo stesso livello, ma i prezzi erano più bassi del 7%. Ma di questo, direte, noi ce n’eravamo accorti prima.
Vero. Ma i paragoni sono illuminanti. Sempre. E quindi vediamo che uno stipendio di Mosca vale il 36%, mentre nel 2006 raggiungeva a fatica il 20 e i prezzi sono cresciuti «solo» del 10%. Che le retribuzioni baltiche sono salite dal 15 al 20%, mentre anche lì i prezzi sono volati dal 50 al 65%. Che la derelitta Bucarest ha visto i salari passare dal 13 al 18,4%, come i prezzi dal 51 al 56. Si comprende bene che quel che fa «mergere» certi paesi è proprio lo squilibrio affamatorio tra salari inesistenti (inchiodati a «specificità nazionali») e prezzi quasi europei («determinati dal mercato»).
La conferma viene da Pechino, che mostra con orgoglio stipendi in vorticosa crescita (dal 8 al 14,7%; quasi il 50% in termini locali), ma anche prezzi dalla dinamica paradossalmente più contenuta (dal 50 al 62,3%; poco più del 20% sul piano interno). Risultato: il potere d’acquisto nel Celeste Impero cresce, mentre nel declinante Occidente cala. Sarà nascosto qui qualche segreto del presente «modo di produzione»?
I pigri media italiani ne hanno parlato solo per dire che Oslo è la città più cara del mondo, omettendo però di dire che i salari norgesi sono secondi solo a quelli svizzeri e danesi. E quindi, per chi a Oslo ci vive e lavora (tutt’altro discorso per i turisti con in tasca monete dal tasso di cambio sfavorevole) le cose – neonazisti stragiti a parte – non vanno poi troppo male.
Tutte le variabili sono state ridotte a una percentuale, in cui – per convenzione – New York è sempre punto di riferimento (100). Un retaggio di quando gli Usa erano il paese che pagava i migliori stipendi e i prezzi gli andavano dietro. Non è più così da un pezzo. Oggi ci sono sei città con salari migliori (erano 4 nel 2006), ma anche 13 con prezzi più alti (solo sei, allora), tra cui Singapore. E quindi ha perso solo un posto nella classifica del «potere d’acquisto».
L’Europa si presenta col ventaglio forse più estremo di situazioni e questo dovrebbe far riflettere sui problemi dell’«integrazione» molto più di quanto non siano capaci di fare i burocrati di Bruxelles e Francoforte o i nanerottoli della politica. A parte i pochi ricchissimi fuori dell’euro, nella classifica degli stipendi primeggia la Germania, con Monaco e Francoforte poco sopra l’80% di un salario Usa e Berlino 5 punti più sotto. A favore della capitale c’è però un livello di prezzi meraviglioso (il 64% di new York), tale da garantire un purchasing power quasi statunitense e migliore di quello londinese (dove a prezzi più alti corrispondono salari inferiori). Soprattutto, i berlinesi negli ultimi 5 anni hanno mantenuto le posizioni, mentre Londra ha smarrito e Parigi guadagnato il 2%.
E l’Italia? Segna scarti feroci tra corsa dei prezzi e stasi salariale. La retribuzione media di un romano è oggi il 49,8% di un newyorkese (quella di un milanese al 63,6), mentre i prezzi sono al 74,4 (68,9 a Milano). Nel 2006 i salari erano allo stesso livello, ma i prezzi erano più bassi del 7%. Ma di questo, direte, noi ce n’eravamo accorti prima.
Vero. Ma i paragoni sono illuminanti. Sempre. E quindi vediamo che uno stipendio di Mosca vale il 36%, mentre nel 2006 raggiungeva a fatica il 20 e i prezzi sono cresciuti «solo» del 10%. Che le retribuzioni baltiche sono salite dal 15 al 20%, mentre anche lì i prezzi sono volati dal 50 al 65%. Che la derelitta Bucarest ha visto i salari passare dal 13 al 18,4%, come i prezzi dal 51 al 56. Si comprende bene che quel che fa «mergere» certi paesi è proprio lo squilibrio affamatorio tra salari inesistenti (inchiodati a «specificità nazionali») e prezzi quasi europei («determinati dal mercato»).
La conferma viene da Pechino, che mostra con orgoglio stipendi in vorticosa crescita (dal 8 al 14,7%; quasi il 50% in termini locali), ma anche prezzi dalla dinamica paradossalmente più contenuta (dal 50 al 62,3%; poco più del 20% sul piano interno). Risultato: il potere d’acquisto nel Celeste Impero cresce, mentre nel declinante Occidente cala. Sarà nascosto qui qualche segreto del presente «modo di produzione»?
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