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La cura del linguaggio: il part time femminile da condanna a “fortuna”

Il lancio:

C’è un tipo di occupazione che ha resistito a tutte le tempeste degli ultimi anni, anzi, proprio nelle fasi di crisi, conosce i momenti di maggiore vigore. Si tratta del part-time, o meglio del part-time ‘involontario’, che viene accettato in mancanza di occasioni di lavoro migliori. Così molti datori di lavoro hanno «declassato» i contratti a tempo pieno in contratti a tempo parziale, a orario e, sicuramente, a salario ridotti. Il fenomeno interessa soprattutto le donne, le «poche» che lavorano. Infatti, non solo l’Italia registra uno tra i più bassi tassi di occupazione femminile in Europa, ma tra le «fortunate» una buona fetta è assunta part time. Stando agli ultimi dati trimestrali dell’Istat sulle forze lavoro quasi un terzo delle donne occupate è a tempo parziale. Se le donne con un lavoro in Italia sono 9,322 milioni (per un tasso di occupazione pari al 46,5%), quelle che risultano part time sono 2,724 milioni, ovvero il 29,2%. Una percentuale decisamente inferiore a quella maschile (5,8%). In tutto il Paese, invece, gli assunti a orario ridotto sono complessivamente 3,483 milioni (15%), in deciso aumento rispetto a un anno fa, ovvero al primi tre mesi del 2010 (+2,3%). Confrontando i dati di oggi con quelli del periodo pre crisi si nota come a fronte dell’emorragia generale dei posti di lavoro la nicchia del part time si sia espansa di circa il 4%. Quindi, il dominio femminile sul part time è evidente e ha radici profonde, dovute allo stretto legame tra donna e famiglia, a eventi come la maternità. La crisi non ha fatto altro che accentuare la tendenza, con il pendolo tutto spostato dalla parte del lavoro flessibile. Anche se neppure la componente maschile è sfuggita dal trade off meno full time più part time. Insomma, spesso piove sul bagnato. Basti pensare che in molti casi chi è part time è anche precario. In Italia l’Istat conta nel primo trimestre dell’anno 2,131 milioni di dipendenti a termine, di questi 547 risultano a tempo parziale. In altre parole oltre un occupato a tempo su quattro (25,75%) è part time. Non deve stupire che gran parte di chi non lavora a tempo pieno, oltre la metà (1,860 milioni, pari al 53,4%), si trova al Nord, visto che l’Italia settentrionale assorbe una quota altrettanto alta dell’occupazione.

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La forza del racconto sta nell’incipit. E qui si parte subito con la “resistenza” del lavoro part time alla crisi. Il “declassamento” dal contratto a tempo pieno a quello parziale diventa così un successo, se si esclude quell’incidentale “a orario e, sicuramente, a salario ridotti”. Del resto il salario deve essere trattato in questo modo, quasi come un incidente di percorso. L’importante è avere un lavoro, che diamine! Il fatto che il parti time sia soprattutto “involontario”, ossia che di tempi pieni non se ne trovano, è un dettaglio da non approfondire.

Ma il capolavoro retorico si svela quando si riferisce questa “fortuna” alla condizione femminile, che ha finalmente un territorio su cui “dominare”, Nientemeno. E, slancio poetico evidente, si lega questo dominio “allo stretto legame tra donna e famiglia, a eventi come la maternità”; un evento evidententemente a bassa produttività. Per gli uomini il giochino retorico riesce meno, quindi il part time precario diventa “un piovere sul bagnato”.

Per chiudere: essere “la prima agenzia di stampa” vuol dire avere la possibilità pratica di influire sull’informazione e l’interpretazione di quasi tutti i giornaliti italiani. Vogliamo scommrttere che domani un sacco di quotidiani (e stasera un sacco di telegiornali) vi ripeteranno la notizia quasi con le stesse parole?

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