A scatenare – sul piano immediato – la “fuga dei capitali dal rischio” (viene da ridere ricordando quante volte gli economisti liberisti o keynesiani ci hanno ricordato che il capitale “rischia” e per questo va premiato con profitti adeguati, possibilmente crescenti) sembra sia stata la scelta della Fed di operare un intervento “prudente” (la cosiddetta “operazione twist”: vendita di titoli di stato a breve termine per acquistare un pari ammontare di titoli a lunga scadenza) piuttosto che un più radicale “quantitative easing” (acquisto di titoli di stato per elargire “liquidità” al sistema finanziario).
Sembra evidente che questi “imbizzarrimenti” dei mercati di fronte a interventi di sostegno pubblci – “pubblici”, va sottolineato – non abbastanza decisi sia segno di una difficoltà strutturale di lungo periodo. Che però, in ambito capitalistico, non può neppure essere tematizzata e discussa. Visto che dominano
Abbiamo scelto gli articoli più interessanti di oggi, Fossimo in voi, ci concentreremmo sulla domanda posta sul Corriere: “c’è un mare di liquidità, ma non arriva là dover serve”. Il nostro suggerimento resta lo stesso: se siamo in decisa sovrapproduzione (chiedete a Marchionne per credere) perché mai i maneggiatori di capitali dovrebbero correre a investirli in attività produttivw? E’ il capitalismo, bellezza: in questi casi si tengono in cassaforte (i “grandi”), o sotto il materasso (i poveracci); ma non si fanno circolare.
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Il terrore arriva dalla Fed
Roberto Tesi
Per capire quanto accaduto ieri occorre focalizzare l’attenzione sugli Stati uniti: le indicazioni fornite mercoledì sera dalla Federal reserve sull’economia americana hanno alimentato le preoccupazioni degli investitori. L’istituto presieduto da Bernanke nel comunicato emesso al termine della riunione del Fomc, il comitato monetario, ha sottolineato che «la crescita rimane debole, così come il mercato del lavoro, mentre il tasso di disoccupazione rimane elevato (ad agosto si era attestato al 9,1%) e calerà solo in modo graduale». Anche se la ripresa dovrebbe «prendere piede nell’arco dei prossimi trimestri», ha concluso la Fed, restano comunque «rischi di frenata dell’outlook economico, che peserebbero anche sui mercati finanziari globali». Da ricordare che il Fodo monetario in settimana ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita del Pil che dovrebbe aumentare dell’1,5% quest’anno (3,1% nel 2010) e dell’1,9% nel 2012.
La Fed ha deciso di intervenire a favore dell’economia preseguendo con la politica dei bassi tassi e varando una nuova misura: la cosiddetta «operazione twist», che però non ha convinto i mercati. La Fed venderà titoli di stato a breve per 400 miliardi di dollari e per lo stesso ammontare acquisterà titoli di stato di lungo periodo. Il fine è quello di abbassare gli interessi di lungo periodo, in modo da favorire gli investimenti. Ma appare difficile sollecitare investimenti, visto che i dati macro fanno pensare a una brusca frenata della congiuntura e in questa situzione la capacità produttiva appare già abbbondante.
In particolare la crisi sembra investire il mondo del lavoro: ieri è stato diffuso il dato settimanale sulle richieste iniziali di sussidi di disoccupazione che, pure in diminuzione, rimangono su livelli elevati e superiori alle attese (423 mila unità). Di più: in agosto il superindice economico elaborato dall’indipendente Conference Board è migliorato dello 0,3%, ma ha rallentato il passo, mettendo in evidenza il rischio di crescita. Come se non bastasse, il segretario al tesoro americano, Timothy Geithner, ha stimato che la vera sfida per gli stati sarà proprio quella di sostenere la crescita più che di abbattere i debiti. Il politico ha però indicato che se l’Unione Europea non agirà in fretta, correrà il rischio di ritrovarsi a fronteggiare la minaccia del fallimento.
Intanto anche il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha detto che l’attuale economia globale «sta entrando in una fase pericolosa, la crescita è rallentata e ci sono all’orizzonte rischi di frenata. La ripresa attesa è a rischio». E a mettere in agitazione i mercati c’è stata anche la notizia che alcuni paesi del G20 hanno chiesto all’Eurozona di «agire rapidamente» per arginare le tensioni sul debito. A conferma che l’economia sta rallentando, ieri il prezo del petrolio ha registrato una cauta di quesi 5 dollari al barile.
Un fiume di liquidità da 2.300 miliardi mail denaro non arriva dove serve
Nonostante gli interventi di Fed e Bee, istituti e sistema industriale faticano, a finanziarsi
Ha iniziato con 1.600 miliardi di dollari. Poi, l’anno scorso, ne ha immessi altri Una montagna di liquidità stampata dalla Federal Reserve negli ultimi tre anni per comprare titoli dalle grandi istituzioni finanziarie e dare così ossigeno a una «corporate America» in affanno dopo il crac Lehman. Due giorni fa Ben Bernanke ha messo di nuovo mano al portafogli, ma non per un terzo round di «quantitative easing», così si chiama tecnicamente la manovra con cui la banca centrale americana ha immesso per due volte liquidità nel sistema.
Il numero uno della Fed ha acquistato sul mercato 400 milioni di dollari di Treasury Bond con scadenza inferiore ai tre anni per immetterne sul mercato altri con durata più lunga, dai 6 ai 30 anni. In questo caso non lo ha fatto per far circolare maggior liquidità nel sistema, bensì per ridurre i tassi a lungo e tentare di stimolare in questo modo la crescita ed evitare una seconda recessione.
Avrà effetto? Wall Street ha reagito male. Gli analisti sono scettici sull’efficacia di una manovra che punta ad abbassare i tassi per stimolare gli investimenti, quando il denaro costa il 2%. Portarlo all’1,8% è, insomma, il classico pannicello caldo. Però è questa la strada che ha intrapreso la Fed. Che, a dir la verità, avendo riempito il bilancio di titoli tossici e asset di dubbia qualità per toglierli dalla circolazione (in tre anni il bilancio è passato da poco meno di un miliardo a quasi 3 miliardi di dollari), non ha più molti margini per altre manovre di quantitative easing. Per chiarire, si tratta di operazioni che vengono messe in atto dalle banche centrali quando l’arsenale è pressoché esaurito, ovvero quando non c’è più margine per ridurre i tassi al fine di stimolare l’economia. Si stampa allora denaro con cui acquistare titoli dalle banche e fornire liquidità.
Che poi finisca al sistema industriale non è detto.
In America non è andata così. Quasi l’intero ammontare delle due manovre è rimasto nelle casse delle banche, quando queste non lo hanno utilizzato per comprare altri titoli. Alle industrie è finita solo una piccola percentuale di quella montagna di dollari. Motivo per cui l’inflazione è aumentata di poco negli Usa, arrivando al 3%. Segno che, complice anche la crisi dei consumi, il denaro fresco non ha girato. La Fed ha monitorato con grande attenzione il mercato dei prestiti per essere pronta a drenare liquidità in caso di un aumento stabile.
Da quest’altra parte dell’Oceano i problemi sono molto simili: l’economia ha ripreso a frenare rischiando una nuova recessione e le imprese lamentano la difficoltà ad ottenere credito dalle banche.
Ma anche queste ultime, paradossalmente, hanno difficoltà a finanziarsi. Proprio come era successo subito dopo il crac Lehman, il mercato interbancario, dove gli istituti di credito si prestano soldi tra loro, si è quasi fermato. Anche l’afflusso dei depositi ha avuto un rallentamento. In più, se è vero che in Europa non ci sono subprime e i cds che hanno avvelenato Wall Street, c’è però la crisi dei debiti sovrani che ha trasformato i titoli di stato della Grecia in junk bond, spazzatura, e ora sta spingendo con forza in quella direzione anche l’Italia. La tensione sugli spread, il differenziale di rendimento tra i Btp e i Bund tedeschi arrivato a oltre 410 punti, sta misurando con grande precisione il problema.
Che si è ribaltato immediatamente sul sistema bancario e a cascata sulle imprese che oggi pagano il «rischio Italia» quando vanno a chiedere denaro al mercato. E quindi devono pagare di più. La Bce è intervenuta con massicci acquisti di titoli di stato proprio per non mandare il sistema in cortocircuito e riportare gli spread a un livello adeguato. Da maggio dell’anno scorso 1’Eurotower ha acquistato titoli di stato europei per 152 miliardi di euro, di cui la metà da agosto ad oggi in Btp e bonos spagnoli.
Ma la difficoltà a trovare credito rimane. L’interbancario è «off limits» per le banche italiane, e non solo. La fiducia è ai minimi. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia ieri ha lanciato l’allarme:
«E preoccupante – ha notato – la difficoltà delle banche italiane a finanziarsi sui mercati esteri a causa della mancanza di fiducia nell’Italia».
L’Eurotower è diventato ormai quasi l’unico fornitore di liquidità per le banche europee. Alle quali al momento ha prestato 477,6 miliardi. Al contrario della Fed, Jean-Claude Trichet sta usando però lo strumento tradizionale delle aste per non far mancare risorse alle banche. Non che all’Eurotower non abbiano pensato a manovre di quantitative easing.
Lo stesso segretario al tesoro Usa, Tim Geithner, ha cercato di persuaderli a seguire l’esempio.
Ma il rischio di vedere crescere l’inflazione è troppo alto. E la Bce ha statutariamente l’obbligo di vigilare sulla stabilità dei prezzi. Anche la Fed, ma con l’aggiunta che Bernanke deve istituzionalmente anche stimolare l’economia.
Anche le aste di liquidità, in teoria, possono far crescere l’inflazione. Ma per evitarlo la Bce è solita drenare periodicamente liquidità in eccesso dal mercato. Martedì scorso ne ha ritirata per 152 miliardi a fronte di 163 miliardi di euro di prestiti concessi la settimana prima. Inoltre la Bce sta sollecitando le banche a tenere il denaro come riserva o, preferibilmente, a depositarlo sui conti della Bce remunerati allo 0,7%. Per cui alle imprese, anche in questo caso, è arrivato poco o nulla dei capitali messi a disposizione da Francoforte. Le banche italiane, tuttavia, soprattutto le big come Intesa o Unícredít, si finanziano per il 7o%o attraverso la raccolta allo sportello e quindi hanno maggiore libertà di movimento, tanto che nell’ultimo trimestre i crediti alle imprese rilevati dalla Banca d’Italia sono aumentati del 5,2%. Ma è anche vero che nell’ultimo mese le richieste alla Bce sono aumentate: ad agosto i nostri istituti hanno chiesto prestiti per 85 miliardi di euro, il doppio di giugno. Ma c’è chi sta anche peggio: all’inizio di settembre due banche europee si sono rivolte all’Eurotower per avere 575 milioni di dollari non avendo possibilità di reperirli in altro modo. Dall’altra parte dell’Oceano nessuno sta prestando soldi all’Europa. Non si fidano. Così Trichet ha dovuto iniziare a fare anche aste in dollari, per ora a tre mesi.
Ma la liquidità di Francoforte non è gratis. Per ottenerla le banche devono fornire garanzie, i cosiddetti «collaterali». Titoli. Di Stato, principalmente.
Dall’anno scorso la Bce accetta anche «covered bond», obbligazioni strutturate emesse dalle stesse banche e garantite da prestiti o mutui. All’inzio di questa settimana c’è stata un’ulteriore concessione: dal i gennaio del 2012 accetterà come collaterali anche titoli non trattati sui mercati regolamentati.
Per le banche, quindi, problemi a finanziarsi non ce ne dovrebbero essere. Addirittura c’è chi ha liquidità in eccesso parcheggiata a Francoforte: ieri l’ammontare dei depositi «overnight» presso la Bce era di 121 miliardi. Resta il problema di come trasferire i capitali al sistema industriale. E per ora né gli Usa né l’Europa sembrano aver trovato la soluzione.
Federico De Rosa
Corriere della Sera
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da Il Sole 24 Ore
Questo «twist» è un ballo lento
di Mario Margiocco
Come il Fondo monetario ha ricordato due giorni fa, il problema della stabilità finanziaria e della ripresa negli Stati Uniti è politico, e ruota alla fine attorno all’uso della leva fiscale, verosimilmente bloccata fino a dopo le prossime elezioni, cioè ancora per un anno e mezzo. Per questo i mercati finanziari hanno reagito male all'”operazione twist” con cui la Federal Reserve sembra prendere atto di questi tempi lunghi.
Accettando per mancanza di alternative un clima alla fine deflattivo nonostante tutto. Compiendo una mossa a favore della stabilità del debito pubblico allungandone le scadenze per una quota significativa. Cercando di dare un aiuto ai mutuatari nei guai e al mercato immobiliare vero cancro del sistema americano. E aspettando che un clima più positivo venga dall’unica fonte possibile, l’abbattimento del debito totale pregresso, dei privati prima di tutto, e la ripresa dei consumi. Quando? La scelta dell’operazione twist indica che neppure la Fed può dirlo.
Siamo ormai in campagna elettorale. I repubblicani escludono di usare la leva fiscale, il male peggiore a loro avviso, perché tarpa le ali del l’America. I democratici hanno paura ad usarla davvero, anche se parlano di aumentare le imposte sui redditi più alti, misura moralmente giusta ma raramente contabilmente efficace da sola. Il problema europeo è immediato, una crisi profonda dell’euro e del progetto europeo se la vicenda greca finisce in malo modo, con l’Italia che deve con un colpo di reni dimostrare di saper governare il suo abnorme debito pubblico.
Il problema americano è attutito dal credito internazionale di cui gode il debito pubblico Usa e che i mercati stanno confermando, nonostante i livelli più che italiani del rapporto debito/Pil. Ma come ricorda il Fondo, il tutto potrebbe cambiare molto rapidamente, se la politica aspetta troppo a lungo. L’obiettivo ufficiale dell’operazione twist è garantire tassi bassi anche sul lungo periodo, abbassando la curva dei rendimenti dei titoli a lunga scadenza. Ma l’America delle imprese galleggia su un mare di liquidità, 13mila miliardi di dollari ricordava due giorni fa il finanziere ed ex vice-ministro di Clinton, Roger C. Altman, e non investe perché non si sa quando i consumi che sono il 70% almeno del Pil americano riprenderanno a crescere in modo decente.
In questo sta l’ambiguità centrale delle politiche seguite dall’ultimo Bush e da Obama, e dalla Fed: combattere l’eccesso di debito con nuovo debito. Ha funzionato sul fronte della liquidità, ma non oltre. I tassi bassi garantiscono mutui bassi, e questo è uno degli obiettivi dichiarati della Fed per aiutare un mercato immobiliare che resta impantanato fino alla cintola nella palude del debito, delle insolvenze e dei pignoramenti. Non c’è stata una politica attiva da parte di Washington per aiutare i mutuatari. Sono state aiutate le banche dichiarando che poi queste avrebbero aiutato le famiglie. E non si vede come mutui trentennali al 4%, ai minimi storici cioè, possano scendere in modo significativo.
Le grandi banche soprattutto avranno qualcosa da perdere comunque, perché il carry trade fatto finora indebitandosi a breve a costi quasi zero e investendo in titoli del Tesoro a lunga scadenza renderà un po’ meno. La Fed spera anche così di ottenere migliori “broader financial conditions”, in particolare crediti meno cari. Ma il consumatore americano continua a sanare i debiti e a risparmiare più che a spendere, e come osservava a fine agosto Stephen Roach, già di Morgan Stanley e ora a Yale, i consumi da fine 2009 hanno ripreso a crescere dopo il crollo di quasi il 5%, ma nel modo più anemico mai registrato da quando esistono le statistiche su recessioni e fasi espansive.
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