Menu

L’Europa. Il problema politico, al di là dei “salvataggi”

Naturalmente, no.

Le ragioni sono semplici, in fondo. Non basta davvero accantonare dei soldi (per di più “virtuali”) per le emergenze, specie se le emergenze si fanno ravvicinate e di dimensioni via via cescenti (salvare la Grecia è costoso, ma salvare l’Italia sarebbe impossibile). C’è un problema di “strumenti” da usare e di “istituzioni” adatte ad usarli senza contestazioni.

La costruzione europea è stata fin qui altamente squilibrata. A un governo monetario centralizzatissimo corrisponde una miriade di poteri politici, nazionali e non, che dànno risposte frammentarie a input unitari. Non c’è una politica fiscale comune (il minimo della pena, se si ha una sola moneta), tantomeno politiche economiche comuni (la Bce è costretta a scrivere “lettere segrete” ai governi per surrogare alla mancanza), figuriamoci politiche industriali comuni (prevale addirittura il suicida dikta a aumentare la “competitività” interna, oltre che internazionale).

Ne vie fuori una gabbia di matti che solo la forza delle cose, ossia, l’incedere della crisi, spinge verso “la centralizzazione”. Processo autoritario, perché avviene in assenza di istituzioni democratiche a questo delegate dal “popolo europeo”; processo ondivago, perché sottoposto a torsioni “nazionali” evidenti. Esercitate soprattutto da chi ha la potenza economica giusta per esercitarle (la Germania molto più della Francia). Si assommano due sorgenti di problemi, potenzialmente devastanti. La proposta di Schauble – ministro dell’economia tedesco, il meno “europeista” di un governo freddino in materia – segnala che a mancanza di “autorità politica centrale” sta diventando un buco nero, che rischia di risucchiare tutta la costruzione polidecennale di un “sistema Europa” senza stato corrispondente.

Questo è l’ordine dei problei – e il tipo di avversario – che abbiamo davanti. Prendergli le misure è il minimo che si debba fare.

*****

Guido Ambrosino
Merkel apre l’«ombrello salva euro»
BERLINO
Angela Merkel può tirare un sospiro di sollievo: il Bundestag ha approvato ieri l’aumento del volume e delle funzioni del fondo di stabilizzazione finanziaria, escogitato per soccorrere i paesi più indebitati di Eurolandia, e lo ha fatto con una autonoma maggioranza della coalizione di governo tra cristiano-democratici e liberali.
Il rafforzamento dell'”ombrello salvaeuro” – denominazione corrente in Germania per il fondo Esfs (European financial stability facility) – sarebbe comunque passato con una maggioranza schiacciante, anche grazie ai voti dell’opposizione socialdemocratica e verde. Alla fine si sono contati 523 sì, contro 85 no e 3 astensioni. Ma per settimane sembrava incerto che Merkel riuscisse a portarsi dietro abbastanza deputati democristiani e liberali per difendere la «maggioranza del cancelliere», la maggioranza assoluta con cui il parlamento nomina il capo del governo. Con 620 seggi, la soglia è fissata a 311 voti (la metà più uno). In una votazione nominale e palese i gruppi della Cdu-Csu e della Fdp ne hanno messi insieme 315, quattro più del necessario. Se il rischio di una crisi politica immediata si è allontanato, le tensioni sulla politica europea all’interno della coalizione di governo restano. Tra gli 85 contrari, tolti i 70 deputati della Linke presenti, un socialdemocratico e un verde, c’erano sei deputati della Cdu, quattro della Csu, tre liberali della Fdp. Tra gli astenuti una deputata democristiana e una liberale.
La cancelliera sa benissimo che molti euroscettici nelle sue fila sono tornati all’ovile solo per paura delle conseguenze sulla tenuta del governo, non perché convinti dell’opportunità di aumentare il fondo per i Piigs, dalle iniziali dei paesi a rischio come Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Né la fronda deve stupire se si considera che, secondo l’istituto demoscopico Forse, su cento tedeschi solo 20 sono favorevoli a nuovi crediti per la Grecia, 37 vorrebbero piuttosto estromettere quel paese dalla zona dell’Euro, altrettanti pensano che convenga constatarne l’insolvenza.
La disputa lacera in modo difficilmente controllabile la Fdp, gli alleati di governo liberali. Il partito è nel panico perché, su sette elezioni regionali nel 2011, solo in due Länder, Amburgo e Baden-Württemberg, è riuscito a superare la soglia del 5% e a tornare nei parlamenti, seppure con dolorose perdite. Catastrofico il miserabile 1,8% alle regionali berlinesi del 18 settembre. Ormai anche sul piano federale la Fdp è deperita nei sondaggi al 2-3%.
In una simile tempesta è forte nella Fdp la tentazione di cavalcare il diffuso malumore e perfino il risentimento contro gli stati del Sud Europa, spendaccioni, mediamente corrotti, afflitti da cronica evasione fiscale: che andassero alla malora, prima di finire di pesare sulle tasche dei virtuosi contribuenti tedeschi. Il deputato liberale Frank Schäffler sta raccogliendo firme per costringere il partito a tenere un referendum tra gli iscritti sul meccanismo di stabilizzazione permanente Esm, che dal 2013 dovrà prendere il posto dell’Efsf. Sull’istituzione dell’Esm i parlamento tedesco dovrà pronunciarsi nel gennaio del 2012. Allora tutti i nodi ora rimossi torneranno al pettine e la situazione per il governo Merkel potrebbe mostrarsi precaria.
Ieri si trattava di portare da 440 a 780 miliardi di euro le garanzie sottoscritte dai paesi europei per l’Efsf. Questo rifinanziamento consentirà di poter effettivamente disporre dell’intera somma di 440 miliardi per crediti e per l’acquisto di titoli di debito degli stati in difficoltà. Un nuovo compito questo, inizialmente non previsto, che consentirà alla Banca centrale europea di sospendere i suoi onerosi programmi di sostegno (sembra che dall’inizio dei suoi interventi la Bce abbia già acquistato obbligazioni degli stati più deboli, Italia compresa, per 150 miliardi di euro).
Il fondo aspira alla migliore valutazione delle agenzie di rating, per poter a sua volta raccogliere crediti alle condizioni migliori. A questo fine le agenzie di rating accettano solo le garanzie di stati classificati a loro volta Aaa, come la Germania e (ancora) la Francia. Di qui l’esigenza di aumentare il volume delle garanzie. La quota tedesca passa così da 120 a 211 miliardi di euro. Per indorare la pillola, il governo Merkel ha messo in votazione ieri anche una norma che lo impegna a richiedere l’approvazione del parlamento per decisioni rilevanti, come un eventuale ampliamento dell'”ombrello” – già adesso si dice che al fondo potrebbero servire 2000 miliardi – o l’ammissione di nuovi paesi ai programmi di sostegno (finora si tratta di Grecia, Irlanda e Portogallo). Su decisioni operative, se per esempio concedere una nuova tranche di aiuti alla Grecia, o se acquistare titoli italiani, si dovrà consultare un comitato ristretto di nove membri della commissione bilancio. Costoro saranno però obbligati alla riservatezza, con tanti saluti per l’informazione del pubblico.

*****

g. a.
RISCHIO TEDESCO
Sovranità, i paletti della Corte costituzionale

Oltre che con i suoi elettori, per nulla entusiasti di sostenere gli stati spendaccioni dell’Europa del sud, Angela Merkel deve vedersela con la corte costituzionale di Karlsruhe, che veglia sulla sovranità fiscale della Repubblica federale tedesca, e non consentirà una “incontrollabile” assunzione di responsabilità per i debiti altrui. Con una sentenza del 7 settembre, i massimi giudici hanno lasciato passare le leggi tedesche del 2010 sul primo pacchetto di aiuti alla Grecia e sull’istituzione del fondo per la stabilità finanziaria (Efsf, European financial stability facility). Ma hanno posto la condizione di un maggior controllo parlamentare sul funzionamento di questi programmi, una richiesta che – secondo la maggioranza – sarebbe stata esaudita ieri, affidando per legge il compito a un sottogruppo della commissione bilancio. E la sentenza, pur se non nomina gli eurobond, è stata interpretata come una bocciatura per certificati di debito comunitari.
Alla corte si era appellato un capofila dei “sovranisti”, il deputato cristiano-sociale bavarese Peter Gauweiler, cui si erano associati alcuni economisti conservatori – Joachim Starbatty, Wilhelm Nölling, Wilhelm Hankel – e Dieter Spethmann, ex manager della Thyssen, convinti che sotto l'”ombrello salvadebiti” si profilasse indebitamente una «unione dei debiti e dei trasferimenti», e che – con l’assunzione di rischi difficilmente quantificabili – si aggirasse il diritto costituzionale dei cittadini-elettori a controllare il bilancio dello stato tramite il parlamento. I giudici hanno respinto i ricorsi, perché il volume degli impegni non sarebbe tale da inficiare la sovranità fiscale del Bundestag. Ma condividono in buona parte i princìpi dei ricorrenti. Sul controllo parlamentare scrivono: «Anche in un sistema di gestione intergovernamentale, i deputati, come rappresentanti eletti del popolo, devono mantenere il controllo sulle decisioni fondamentali di bilancio. Pertanto è vietato al Bundestag istituire meccanismi finanziari che possano portare oneri di bilancio non controllabili, senza un rinnovato voto costitutivo del parlamento».
E aggiungono: «Nemmeno il parlamento, come legislatore, ha la facoltà di stabilire duraturi meccanismi di diritto internazionale che finirebbero col comportare un’assunzione di responsabilità finanziaria per le decisioni di altri stati». E qui sembra proprio che la corte costituzionale metta in guardia da diavolerie come gli eurobond.

da “il manifesto” del 30 settembre 2011

*****

dal Corriere dela sera

 

Il si tedesco alla Grecia che non chiude la partita

Per Berlino i giochi non sono chiusi Ora la partita è con le banche

di Taino Danilo

Angela Merkel vince in Parlamento e riprende la leadership in Germania e in Europa. Ma riapre il dossier del secondo salvataggio della Grecia. La cancelliera dice che forse andrà rinegoziato, perché Atene potrebbe avere bisogno di più denaro rispetto ai 109 miliardi stanziati. Soprattutto, il governo di Berlino (e altri dell’Eurozona) sono irritati dal fatto che la speculazione potrebbe guadagnare miliardi dal piano di salvataggio: si rischia un mezzo flop.

Nuova falla da turare, quindi, subito dopo che Angela Merkel si è assicurata una bella vittoria politica al Bundestag, ieri. Succede che tra i 17 membri dell’Eurozona si è riaperto un dossier che molti consideravano chiuso. Si tratta del secondo pacchetto finanziario a favore della Grecia, da 109 miliardi, deciso dal Consiglio europeo del 21 luglio scorso: tra le altre cose, prevede che i privati che hanno investito in titoli di Stato di Atene accettino di perdere circa il 21 per cento su 135 miliardi di obbligazioni elleniche; ora invece si scopre che quello schema potrebbe fare guadagnare decine di miliardi alla speculazione. In più, forse non sarà sufficiente, perché la Grecia potrebbe avere bisogno di maggiori fondi rispetto a quelli che le sono stati promessi due mesi fa.

Fatto sta che il governo tedesco e altri cinque o sei governi dell’area euro vorrebbero ridiscutere l’accordo raggiunto a luglio con i privati (soprattutto banche) in quanto troppo vantaggioso per questi ultimi e costoso per i contribuenti. In un’intervista alla televisione greca Ert, la cancelliera tedesca non ha escluso la rinegoziazione e l’ha condizionata ai risultati dei colloqui ripresi oggi tra il governo di Atene e la troika (Fondo monetario internazionale, Ue, Banca centrale europea) che deve giudicare lo stato delle finanze del Paese. «Ora dobbiamo aspettare ciò che la troika trova e quello che ci dice, se dobbiamo rinegoziare o se non dobbiamo rinegoziare», ha spiegato Frau Merkel.

Il Financial Times ha citato fonti anonime di Bruxelles per sostenere che fino a sette governi sarebbero dell’opinione di riaprire il dossier allo scopo di aumentare le perdite a carico dei privati nella parziale ristrutturazione del debito greco concordata in luglio. Oltre a quello tedesco, tra questi sette dovrebbero esserci i governi di Olanda, Austria e Finlandia. Parigi e la Banca centrale europea sarebbero invece radicalmente contrarie a ristrutturare un pacchetto concordato tra mille difficoltà tra i governi e i rappresentanti delle banche (raccolte nell’International Institute of Finance). Nuova spaccatura nell’Eurozona, insomma.

L’accordo di luglio prevede un meccanismo complesso che in teoria dovrebbe comportare per i privati perdite attorno al 21 per cento. Il fatto è che dal giorno successivo alla firma del pacchetto (che deve essere approvato dai parlamenti dei 17 dell’area euro) molti hedge fund e speculatori hanno iniziato a comprare titoli greci, a prezzi che sul mercato sono stracciati: ieri si compravano a meno di 40 centesimi rispetto a un valore facciale di un euro. Nella speranza – quasi certezza – che avrebbero poi potuto scambiarli, secondo il piano concordato, per altri titoli garantiti dalla Ue che equivalevano a 79 centesimi su un euro. Se tutto andrà avanti come previsto fino a questo momento, in pochi mesi si tratterebbe di un guadagno del cento per cento (comprati a 40 o meno, ceduti a 79).

Secondo il New York Times, un terzo degli investitori che hanno accettato il piano avrebbero comprato i titoli greci dopo il 21 luglio, cioè sicuri di fare un profitto considerevole: si tratta di titoli per una quarantina di miliardi sui quali la speculazione ha puntato. Se le cose andassero in questo modo – ritengono a Berlino e in altre Cancellerie europee – le opinioni pubbliche si ribellerebbero all’idea di usare denaro dei contribuenti europei per favorire gli hedge fund che hanno trovato un modo legittimo ma troppo facile per fare soldi. Si tratterebbe di un flop piuttosto evidente.

Più di un politico tedesco, inoltre, è irritato al pensiero che le banche che hanno in portafoglio titoli greci che oggi valgono meno del 40 per cento del loro valore facciale siano «salvate» offrendo loro un patto favorevole che limiterebbe le perdite al 21 per cento (o anche a molto meno, secondo i calcoli di alcuni analisti). La reazione delle banche alle parole di Frau Merkel e ai piani di ridiscussione dell’accordo è dura. Josef Ackermann, numero uno di Deutsche Bank, dice che «riaprire l’accordo non è fattibile». Altri sostengono che se si imponessero perdite peggiori ai privati questi reagirebbero vendendo titoli delle banche e debito italiano e spagnolo, con un grave effetto contagio.

Chiuso un capitolo, se ne apre subito un altro, in questa crisi.


*****

da Il Sole 24 Ore

La scialuppa non basta per salvare l’Europa

di Roberto Perotti

Il Parlamento tedesco ha approvato l’aumento del fondo salva-Stati. È un passaggio formale che cambia poco nella sostanza: l’aumento da 250 a 440 miliardi serve per intervenire in Grecia, ma la partita ormai si gioca su Italia e Spagna, per le quali servirebbe molto di più.

Anche le altre modifiche al fondo, inclusa la possibilità di intervenire sul mercato secondario dei titoli pubblici, potrebbero avere impatto solo se le cifre fossero molto più grandi. E su questo, nonostante le tante voci di questi giorni, siamo lontani da un’azione concreta.
Ormai è un dato di fatto che i mercati si aspettano una qualche forma di default della Grecia. Per questo la troika (Fmi, Bce, e Commissione europea) sta svolgendo un lavoro delicatissimo e necessario, ma sta anche giocando una partita che può solo perdere. Se abbandonasse la Grecia al suo destino, gli altri Paesi occidentali verrebbero accusati di rinunciare a un tentativo di salvare il salvabile. Se intervengono, come avviene ora, non possono rinunciare a porre condizioni gravose, come i pesanti tagli di bilancio; ma come in molte altre occasioni (dalla crisi asiatica nel 1997 a quella dell’Argentina nel 2001), queste condizioni verranno poi accusate di essere causa della recessione.

In effetti, è inutile illudersi che nel breve periodo la Grecia possa uscire indenne dalle decine di migliaia di licenziamenti nel settore pubblico che il Governo greco ha coraggiosamente accettato. Ma è anche inutile illudersi che si possa fare default a costi contenuti. Dunque che la Grecia prolunghi l’agonia e rimanga sotto la tutela della troika, o che faccia default, inizialmente pagherà un prezzo altissimo.


Paesi asiatici e l’Argentina si sono ripresi piuttosto velocemente, ma i primi due anni sono stati pesantissimi, con costi sociali elevatissimi. Lo stesso succederà in Grecia: quanto tempo occorrerà per riprendersi non lo sappiamo, ma inizialmente saranno lacrime e sangue.
Il lavoro della troika è difficile, e non è realistico pensare che l’Europa si esima dal tentare. Ma oltre al costo inevitabile ma pesantissimo imposto alla Grecia, il prezzo da pagare è che il fantomatico Washington consensus (che in realtà non esiste più, se mai è esistito) verrà accusato ancora una volta di essere la causa vera della recessione greca, quando in realtà la causa fondamentale è che nessun Paese può vivere per anni al di sopra delle proprie possibilità e sperare di non pagare il conto. Quel poco di cultura di mercato che si stava diffondendo nell’Europa meridionale verrà ulteriormente messo in discussione.

L’immagine della troika che scende dalla scaletta dell’aereo e chiede al Governo di licenziare decine di migliaia di dipendenti pubblici non fa che fomentare reazioni populistiche e scomposte, come è avvenuto in altri Paesi in passato.
Forse anche per questo sarebbe meglio prendere atto della situazione, e lasciar dichiarare un default. Dato che niente può salvarla, forse è meglio evitare di generare la convinzione che il crollo della Grecia sia dovuto alla pesante condizionalità della troika.

Da Il Sole 24 Ore

*****

Ora il bond dell’Efsf lancia la sfida al Bund

di Vittorio Carlini

Un nuovo concorrente, sempre meno «fantasma», si aggira in Europa, sul fronte dei bond governativi: il Fondo salva-stati. Un player che potrebbe dire la sua nel derby delle triple «A», soprattutto contro il più blasonato Bund tedesco. Certo, nonostante l’ok dei diversi parlamenti Ue al suo rafforzamento, l’operatività di questo veicolo resta avvolta nella nebbia.

E certo, la rilevanza socio-economica di un emittente come Berlino non può essere messa in discussione. Tanto meno da un Fondo che, tra mille polemiche e incertezze, ha fin qui emesso solamente tre bond.
Eppure, proprio guardando l’andamento di queste obbligazioni salta fuori uno dei motivi che iniziano a preoccupare il governo Merkel. Quale? Di certo non il rifiuto, attribuito ai tedeschi, a voler tirare fuori i soldi per aiutare gli spendaccioni latini. Tutt’altro: il tema è ben più tecnico. L’emissione decennale dell’Efsf, infatti, ieri vantava un rendimento lordo del 3,07 per cento. Cioè, all’incirca, 100 punti base in più del corrispettivo titolo governativo di Berlino: quel Bund che, dopo il via libera del Bundestag al «raddoppio» del Fondo, ha visto il suo yield arrivare a danzare attorno a quota 2 per cento.

Una differenza, nell’età dei rendimenti «rasoterra», non da poco e che i radar degli operatori istituzionali hanno già individuato. «In una prospettiva futura – sottolinea Angelo Drusiani, esperto obbligazionario di Albertini Syz – l’interesse del mercato può, in parte, spostarsi dalla classica tripla “A” tedesca a quella dell’Efsf». «È possibile – fa da eco Guido Casella, responsabile fondi obbligazionari di Azimut -. In passato, peraltro, abbiamo già operato su queste emissioni. Ciò detto, bisogna aspettare per vedere, ad esempio, come verrà effettuato il pricing o quanto liquidi saranno i bond. Fare delle previsioni, allo stato attuale, è prematuro: troppe sono le incognite sul futuro stesso di Eurolandia».

Quelle incertezze che, scaturite dai problemi sul debito degli stati periferici dell’Unione monetaria, giocoforza non possono non coinvolgere anche Berlino, soprattutto a fronte della cattiva congiuntura. «Il recente calo delle quotazioni del Bund – ricorda Maila Bozzetto, esperta di reddito fisso di Imad2 – rispecchia anche quest’ultimo aspetto. Senza dimenticare, poi, l’accelerazione sul fronte del Fondo stesso». Vale a dire? «Lo sviluppo, a questo punto obbligato, dell’Efsf di fatto “socializza” i problemi del debito degli stati latini con quelli dei paesi più solidi». Una “commistione” che il mercato ha già segnalato: i Cds sulla Germania, seppur non così attendibili, in settembre sono saliti da 73 a 104 punti base. L’indizio che i Bund, percepiti un po’ meno come bene rifugio, potrebbero vedere le loro quotazioni scendere.

Soprattutto se, paradossalmente, l’Efsf verrà sviluppato in maniera ordinata. «Attualmente – specifica Casella – il maggiore rendimento del bond del Fondo è conseguenza di una tripla “A” più debole di quella tedesca». La partecipazione (pro quota Bce) di stati quali Spagna, Italia o Portogallo alle garanzie del veicolo rende, giocoforza, meno sicura la solidità del rating. Il quale, è la convinzione di tanti, verrebbe ulteriormente diminuita se fosse introdotta anche la leva. Al contrario, uno sviluppo “virtuoso” potrebbe dar vita a un emittente (garantito dalla “politica”) in grado di «sottrarre – sottolinea Drusiani – liquidità anche ai governi tripla “A”». Almeno in teoria

*****

Passo necessario ma ora serve la crescita

di Alessandro Merli

Peer Steinbrück, che fu il ministro delle Finanze di Angela Merkel e ne sarà probabilmente il rivale alle elezioni tedesche del 2013, ha detto una cosa quasi ovvia, nell’acceso dibattito parlamentare di ieri mattina al Bundestag. L’approvazione dei nuovi poteri e delle nuove risorse per il fondo salva-Stati europeo Efsf è un passo necessario, ma non sufficiente a risolvere la crisi del debito sovrano nell’area dell’euro.

I 440 miliardi di euro di cui ora è dotato l’Efsf servono a combattere la battaglia di ieri, il contenimento del danno a Grecia, Portogallo e Irlanda. Quella di oggi, dove il contagio è ormai deflagrato e che vede in prima linea Spagna e Italia, e la sopravvivenza stessa della moneta unica, richiede ben altre risorse. Finanziarie e di capacità decisionale.
Guadagna un po’ di tempo, così come lo farà la probabile approvazione della prossima tranche degli aiuti alla Grecia da parte della troika: 8 miliardi di euro senza i quali Atene è condannata al default subito. Tempo per fare cosa? La successione delle notizie della sola giornata di ieri, al di là del voto del Bundestag, mostra che sono molti i focolai da contrastare. Il più difficile è quello della crescita: i dati sulla fiducia delle famiglie e delle imprese in Eurolandia nel mese di settembre sono pessimi.

L’economia potrebbe subire una contrazione nel terzo trimestre e andare in recessione in quello successivo. L’indicatore Euro-coin, sviluppato dalla Banca d’Italia sull’andamento dell’attività nell’area euro, fotografa da tre mesi a questa parte una frenata che si accentua. La crescita è il problema dei problemi in Europa ed è anche la prima preoccupazione dei mercati, anche se a prima vista tutti sono concentrati sul dilemma “default sì, deafult no” per la Grecia.
È anche il più intrattabile, perché nel breve termine c’è poco che si possa fare; forse solo un taglio dei tassi da parte della Banca centrale europea, che rimuova i due rialzi decretati negli ultimi mesi. Ma anche questa mossa è oggi posta in discussione dai tedeschi.
Le altre due notizie di ieri che danno il senso della gravità della situazione sono, anzi tutto, il risultato dell’asta italiana di titoli di Stato, con i rendimenti tornati ai livelli pre-euro, spazzando via un processo di convergenza che non abbiamo saputo mettere a frutto per fare le cose giuste quando era il momento, e il ritiro della privatizzazione delle lotterie spagnole, impossibile alle condizioni attuali di mercato, una porta che si chiude per chi contava su questa carta per la ridurre il debito. Privatizzazioni che in Italia, va detto, vengono riesumate oggi dopo averle ripudiate quando si sarebbero potute fare.

Le risorse da mobilitare a livello europeo devono essere sufficienti a ricapitalizzare il sistema bancario perché possa assorbire un eventuale default greco e la svalutazione del portafoglio di titoli di Stato, fornire liquidità sufficiente a limitare il contagio di Italia e Spagna (e Francia), tenere un’ampia riserva che assicuri i mercati dell’impegno, finora solo a parole, di salvare l’euro “costi quel che costi”. Per tutto questo, il nuovo Efsf chiaramente non basta. Il primo rafforzamento delle sue risorse dovrebbe passare da Canossa, cioè dal riconoscimento che l’Europa non ce la può fare senza l’aiuto del Fondo monetario e dovrebbe sollecitare l’uso del suo sportello Nab (oltre 500 miliardi di dollari), magari rimpinguato da contributi addizionali dei Brics.

Poi si dovrebbe comunque ricorrere a una leva finanziaria per questi fondi, anche se l’esclusione della Bce come finanziatore (una condizione inaccettabile alla Germania, così come l’esborso di altri denari dei contribuenti) segnerà un limite serio. A questo punto si potrà ristrutturare, anche pesantemente, il debito greco, e magari quello portoghese e irlandese. Senza che questo travolga il resto dell’edificio.

*****

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *